La tragedia sul doge decapitato andata in scena a Bergamo a teatro chiuso appartiene a una fase sperimentale del grande drammaturgo. Un’entusiasmante pagina di teatro musicale con congiure, duelli, amori proibiti, confessioni, condanne a morte e il perdono a un passo dal patibolo
Che Gaetano Donizetti sia un grande drammaturgo, oltre che un grande compositore, possiamo dire sia ormai assodato. Merito soprattutto del “suo” festival, che da diversi anni porta avanti a Bergamo una missione che non è solo musicale, ma anche teatrale, permettendo a un pubblico fedelissimo di scandagliare l’interminabile catalogo del compositore con un nuovo sguardo. Tant’è che sembra difficile credere che qualcuno, ascoltando il Marino Faliero andato qualche giorno fa in scena – o meglio, in streaming, sulla nuova Donizetti web TV –, si sia lasciato assalire dai soliti dubbi, che poi sono solo pregiudizi, su un Donizetti discontinuo, antiteatrale, “belcantistico” in senso spregiativo, talmente legato a routine e convenzioni che ancora i maligni ne tormentano la memoria chiamandolo “Dozzinetti”.
In breve, la scelta del titolo di apertura di questa sfortunata annata (insieme al magnifico Belisario in forma di concerto e alla farsa Le nozze in villa) si inserisce in un indirizzo artistico preciso e coerente, dal momento che la tragedia veneziana sul doge decapitato nel 1355, tratta da Byron con contaminazione del francese Delavigne, appartiene a una fase sperimentale della carriera di Donizetti, in cui il compositore tentava strade meno scontate, meno decorative. Al punto che l’opera colse alla sprovvista il pubblico del Théâtre-Italien, che nel 1835 si aspettava tutt’altro dall’autore dell’Anna Bolena. Invece la partitura sembra non fare alcuna concessione agli edonismi. L’opera è di un’uniformità insolita, tetra, manca l’aria di sortita per il soprano, i momenti pregnanti non sono contemplativi ma dinamici, e il tenore, a cui sono affidati gli unici veri virtuosismi, esce di scena al second’atto. In definitiva il canto, in Marino Faliero, non è quasi mai fine a se stesso: al centro c’è la parola, che si potrebbe persino definire “scenica” in senso verdiano. Come in effetti vien da pensare dopo aver assistito all’interpretazione di Michele Pertusi, che da solo regge il peso tragico dell’opera, lasciando intendere che il drammatismo di Donizetti porterà in poco più di vent’anni al Boccanegra.
Viste le premesse, un regista non può che entusiasmarsi con questo materiale teatralissimo: congiure, duelli, amori proibiti, confessioni, condanne a morte, il perdono finale a un passo dal patibolo. E un clima da romanticismo inquietante alla Hoffmann – peraltro anch’egli autore di un racconto sullo sfortunato doge – che a ragione viene richiamato dall’impianto scenico di Marco Rossi, labirintico e un po’ ronconiano, tutto passerelle e scale alla Escher che girano a vuoto. Quando a teatro una scena funziona, i riferimenti geografici e storici si colgono al volo anche senza ricostruzioni esatte: così basta un’occhiata per associare a quest’intrico di ferraglia Venezia, con le sue prospettive distorte di calli, canali e fondamenta.
Eppure non è sulla cupezza del suggerimento scenico che punta il progetto di ricci/forte (la regia è del solo Stefano Ricci) che, al contrario, ricerca da subito un netto contrasto con queste atmosfere. I costumi sgargianti di Gianluca Sbicca, un po’ Gucci for dummies, prendono in contropiede gli spettatori fin dall’ingresso dei sei mimi, le cui acrobazie commentano per tutto lo spettacolo azioni ed emozioni dei personaggi, alternando momenti riusciti – ad esempio l’alienante nuoto sincronizzato nei canali – ad altri più confusi o francamente troppo didascalici – da abolire per sempre i riferimenti alle marionette per parlare di sottomissioni pubbliche o private. Azzardando un confronto, se il Nabucco visto a Parma lo scorso anno dava l’impressione di una creatività magari disordinata ma dirompente, questa produzione sembra più avara di idee, tanto che alla fine risulta difficile capire come l’inquietudine dell’opera e della scena possano accordarsi al grottesco spinto a cui tende la regia.
Molto buona la compagnia. Oltre a Pertusi, che canta col presentimento delle conseguenze verdiane della sua parte, ma senza mai uscire di stile, il baritono Bogdan Baciu interpreta con nobiltà la parte importante e dignitosissima del capo dell’Arsenale Israele; Francesca Dotto (sopra) non ha un accento fuori posto per la sua Elena, e chiude lo spettacolo con una fuga senza fine nel groviglio di impalcature, intrappolata come Arianna nel labirinto del Minotauro; più in difficoltà il tenore Michele Angelini, che non riesce a mostrare le sue qualità nella difficilissima parte di Fernando; buona prova di Christian Federici, Dave Monaco, Anaïs Mejías e il gondoliere Giorgio Misseri.
Sicura la direzione di Riccardo Frizza, che non si lascia scoraggiare dalla disposizione dell’orchestra, con gli archi davanti a lui e fiati e percussioni alle sue spalle, come il coro disposto su una pedana in palcoscenico per garantire il distanziamento. Logico che i bilanciamenti a volte vacillino, che il coro non “buchi” mai l’orchestra e che gli interventi degli strumentini non siano sempre quei riflettori sui personaggi che ci si aspetta, ma in una situazione del genere la priorità è il controllo, e in questo senso Frizza ha fatto miracoli, e volteggiando tra i suoi due leggii è riuscito a comunicare persino quel senso di catarsi che l’opera porta con sé.
In copertina e all’interno foto di Gianfranco Rota