È in corso al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, fino al 6 gennaio 2020, “Un certo numero di cose / A Certain Number of Things”, un progetto di Cesare Pietroiusti a cura di Lorenzo Balbi con l’assistenza curatoriale di Sabrina Samorì, che racconta per la prima volta l’intero percorso d’arte e di vita dell’artista. Un’antologica che diventa pretesto per un’autonarrazione non solo attraverso le opere prodotte ma anche tramite oggetti, suggestioni, episodi, gesti, azioni, comportamenti e ricordi riferiti alla propria vita, a partire dall’anno di nascita, il 1955. Uno straordinario e irresistibile percorso tra pensiero, riflessione e ironia di uno degli artisti italiani più significativi per complessità, rigore e incisività.
Ho conosciuto Cesare Pietroiusti a metà degli anni Novanta a Bologna, quando mi fu presentato durante l’inaugurazione di una mia mostra al Graffio, spazio no profit mitologico, nella memoria di molti, della Bologna di quegli anni. Di certo lui di me non si ricorda, e io non lo trovai particolarmente simpatico.
Freddo, distaccato, con quel fisico allampanato e l’occhio esistenzialista, aveva tutte le caratteristiche per sembrarmi quantomeno altezzoso. Ma scoprii poi che l’essere presentati era in realtà parte di una sua performance, consistente nell’essere appena arrivato dall’America senza aver dormito nelle ultime credo 24 ore e, ciò nonostante, farsi presentare alle persone e interagire con loro per quanto possibile, mettendo a dura prova la sua resistenza fisica e mentale.
Un atteggiamento che all’epoca mi sembrò cervellotico, ma che racchiudeva in sé riflessioni importanti e la necessità di creare una rete tra le persone, uno spirito del tempo che anche noi artisti più giovani stavamo assorbendo e rimasticando, indipendentemente dalla ricerca in atto, perché le idee, come diceva mia nonna, sono come i pidocchi, che saltano da una testa all’altra senza che neanche te ne accorgi.
E me ne rendo conto ancor di più oggi, a oltre vent’anni da quell’unico incontro, dopo aver visto Un certo numero di cose di Cesare Pietroiusti al MAMbo di Bologna, la sua prima antologica in un’istituzione museale.
Un’antologica che però antologica non è, perché l’estrema intelligenza e lo sguardo diacronico che Pietroiusti riesce a mettere nel suo fare artistico solleva l’operazione espositiva dal suo rango socialmente condiviso di narrazione cronologica della vita e delle opere di un artista e la proietta, con gesto atletico e paradossalmente virile, in un iperuranio splendente travestito da lunapark.
Traduco: iperuranio in quanto spazio delle idee, quelle che per Platone sono modello unico delle cose imperfette del mondo; lunapark in quanto percorso narrativo imprevedibile e assolutamente avvincente, sapientemente costruito come una trama letteraria di genere, come un giallo alla Simenon, di quelli che anche se forse potresti capire chi è l’assassino il tuo cervello si rifiuta, perché vuole arrivare in fondo senza perdersi una riga, immerso nell’atmosfera, eccitato dagli indizi che via via si presentano, fino alla scoperta che il vero contenuto è un altro e vittima e assassino in realtà coincidono.
L’ordine cronologico è assolutamente disatteso e il viaggio in mostra si dipana attorno a “oggetti-anno”, come lui li definisce, dei nuclei tematici sviluppati tenendo sempre conto del contesto espositivo, con un approccio quasi da scenografo teatrale che condiziona anche i gesti di chi vi si muove.
Livelli paralleli, dal contenuto delle opere alle scelte installative alla gestione dello spazio nel suo insieme, che fanno di questa antologica un’opera a sé, una vera e propria meta-cognizione con cui l’artista ci introduce nel suo mondo complesso e articolato ma, si badi bene, assolutamente accogliente ed empatico. Ed è stata proprio questa, per me, la scoperta più sorprendente!
Mi aspettavo una summa di cervellotiche elucubrazioni sui massimi sistemi, e le ho trovate, ma fatte da una persona capace di coinvolgermi in quei viaggi mentali sempre condivisi, sempre in relazione con gli altri e quindi anche con me, che ci sono cascato fino all’entusiasmo, al divertimento, alla tenerezza e alla commozione.
Perché se la struttura appunto meta-cognitiva della mostra assomiglia al Viaggio allucinante del film di Richard Fleischer del 1966, dove degli scienziati miniaturizzati viaggiano all’interno di un cervello tra neuroni, anticorpi e globuli rossi, questa è sorretta e resa fluida e piacevolissima da un’estrema e brillantissima auto e etero ironia, intrinseca a ogni singolo lavoro e fluidamente aleggiante nell’intero progetto espositivo.
A partire dalla prima sala, che Pietroiusti dedica alle opere non riuscite perché troppo retoriche, estetizzanti o involontariamente somiglianti a opere altrui. Passando per le singole opere, dal cantare per ore inni fascisti – scatenando il tifo da stadio di giovani destrorsi e un inequivocabile antifascismo nello spettatore, che può finalmente apprezzare l’orecchiabilità di “Vincere vincere e vinceremo” – al correre attorno a una pista per migliorare il proprio record nel “giro della morte” dei 400 metri riportando in sottofondo tutti i pensieri che inevitabilmente si susseguono, al mangiare lentissimamente assieme con quello che mangia più lento che vince.
Fino alla sala che impone il giro di boa nel percorso, in cui sono contenuti i ricordi dell’infanzia e della giovinezza ripensati come parte del corpus di opere complessivo dell’artista, tra foto della balia, pagelle, magnetofoni e tessere della A.C. Roma camuffate nella speranza di accedere ai cinema zozzi.
Parti di vita inglobate in opere mature e consapevoli, disegni del diario dell’amico ingranditi fotograficamente, banchi di scuola e rigorose riflessioni sullo spazio fisico e mentale, cose fatte per gli altri, saggi psicologici e stroncanti recensioni. Tutto nel percorso di Cesare Pietroiusti trova la sua collocazione nel flusso del pensiero, dell’arte e della vita perché, come dice Michel Foucault citato da Pietroiusti nell’introduzione al bellissimo catalogo della mostra, è la vita stessa di ciascun individuo ad essere un opera d’arte. E la sua, indubbiamente, lo è.
Immagine di copertina: Partita a scacchi con papà, Cortina d’Ampezzo (?), agosto 1963. Fotografia a colori, cm 8,9 x 13