E così è anche per Franco Boggero, cantautore ligure esponente di una razza grande che annovera tra i suoi figli De André, Paoli, Tenco, Fossati solo per citarne alcuni. Un raffinato slow food musicale il suo che incornicia testi di grazia lieve e malinconica. Come quelli del suo ultimo album
Uno dice che è cantautore. Magari, se gli viene l’estro, firma “per brevità chiamato artista”. Affabula e canta sul palco, ma prima o durante aveva fatto il professore, il medico, il grafico, l’architetto, il capostazione, il bibliotecario. Poi scopri che è un cantautore ligure. Razza grande, la migliore. Con i maestri della scuola genovese: De André, Paoli, Tenco, Bindi, Lauzi, da ultimo Fossati. E con i tantissimi meno famosi ma ricchi d’ingegno, che bisognerebbe riascoltare o scoprire, prima o poi li passiamo in rassegna perché ci sono canzoni che meritano di essere mandate a memoria: di Gian Piero Alloisio, Max Manfredi, Federico Sirianni, Giua, Francesco Baccini. Di Franco Fanigliulo, degli Ex Otago e mi fermo qui perché potrei andare avanti a lungo.
L’ultimo è lui, Franco Boggero. L’ultimo soltanto perché il suo album Quasi un’abitudine, tredici canzoni di lieve e stralunata grazia increspata da folate di malinconia, è fresco di stampa. Ma in realtà Boggero è una vecchia conoscenza. Il suo esordio, Lo so che non c’entra niente del 2009, fu finalista al Premio Tenco. Ci si trovavano brani di disincantata ironia come Chimica:
Avevo l’intenzione di brindare a questi due che oggi si sposano / magari si ameranno anche domani ma non ci scommetterei / meglio star zitti, non si sa mai
E resoconti di quiete crisi esistenziali come Linea d’ombra (no, non è Conrad: è una striscia che la tenda proietta sul soffitto, nella penombra di una stanza).
Nel 2018 il bis con Punta da cinque: un omaggio al ferramenta filosofo che l’autore, bricoleur impenitente, ha frequentato e frequenta. Lo spunto, la riflessione, l’epifania, la canzone, viene anche da un incontro casuale, da una seduta dal barbiere (Sfumature, e non si tratta soltanto di capelli), da un’associazione di idee, da un ricordo all’apparenza incongruo ma spiazzante, come in certe canzoni di Enzo Jannacci.
Nell’ultimo disco, il terzo (nel 2025 è annunciato il quarto, Ma tu… ma tu: sedotti e conquistati, lo attendiamo), a Boggero capita di pensare al Fedro di Platone e di citarlo obliquamente, senza darlo a vedere, seduto sullo sgabello giallo di una serra di basilico a Pra. Non c’è bisogno di tirare in ballo Giuliano l’Apostata, come ha fatto di recente il ministro Giuli in un’orgia citazionista, per volare alto. Ci sono altre citazioni nascoste nel nuovo disco: il Pascoli di X agosto bonariamente sbertucciato in Noi qui a pancia in su (quella poesia l’aveva messa in musica, con un esito struggente, il grande e rimpianto Giammaria Testa), tutti a cercare le stelle cadenti e a fare la lista dei desideri e uno che grida “là, là, là”, ma forse la stella se l’è inventata, forse è caduta davvero e gli altri non se ne sono accorti.
Ecco, la cultura. Respirata naturalmente e offerta per scelti scampoli, senza esibizionismi. Perché Franco Boggero, prima che essere cantautore, è a lungo storico dell’arte per il ministro dei Beni Culturali. Classe 1953, ha lavorato sino a qualche anno fa alla Sovrintendenza di Genova.
Il che significava convegni, mostre (una assai importante, Superbarocco, è approdata alle Scuderie del Quirinale). Un’attenzione al Rinascimento e al Seicento ligure, all’incomparabile arte argentiera genovese, ma anche ai tesori minori dell’entroterra ponentino e non solo, amorevolmente presi in carico, restaurati e messi in salvo. Se cercate su Amazon, scoprirete la sua vasta produzione di studioso: almeno due pagine di titoli, anche una prova narrativa del 2021 che dicono di comicità irresistibile (Il demone della stupidità e altre questioni, l’ho appena ordinato).
Dell’avventura laterale da cantautore, che con il tempo si è andata intensificando, Boggero dice: «Scrivo canzoni per riflettere meglio sulla vita. Molte mie canzoni nascono dalla ruminazione, non so trovare espressione migliore… di materiali verbali raccolti o raccattati e messi via, con la costanza del bricoleur. Una frase colta al volo per strada, ma anche un’epigrafe, il passaggio che ti fa sospendere la lettura del libro, ma anche l’espressione sfuggita a qualcuno che ti sta telefonando». Come quel barattolo di “spaghi troppo corti per essere usati” messo via da una vecchia signora amabilmente rievocata.
Nasce da questa attitudine la civile presa di distanza dalla città “perbene” dove uno per darsi un tono compra camicie anglosassoni e si mostra affaccendato (Un posto come Genova):
E uno dice che in un posto come Genova / certe cose non succedono mai / tutto quanto è già scontato e prevedibile / è la base che ti manca, è la base che ti manca…
Da queste ruminazioni nasce il quasi manifesto antieroico e antiesotico della bellissima Luce che passi sotto, quanta distanza da Paolo Conte e quanta prossimità con suo fratello Giorgio:
Luce che passi sotto / un’altra porta chiusa / sguardo da sotto in su / che quasi chiede scusa / Fuori dai cerchi magici / con mezza ala voli / non hai un pensiero unico / solo pensieri soli. / Vento che arriva e apre / la porta le finestre / lava che esce bolle / devasta le ginestre (…)
Luce che passi sotto / tu che proteggi gli angoli / non voglio lo splendore / quello lo lascio agli angeli / Voglio che tu mi ascolti / voglio ascoltare te / voglio sul pane un gotto / di vino e sono un re. / Non occupare il tempo / il tempo va da sé / e poi neanche il tempo / si occupa di me. / Fuori dai cerchi tragici / dall’ansia del contare / dalla ragione inutile / persino a ragionare. / Non voglio dare lustro / a scuole aziende e mense / voglio guardare piovere / gocce sottili o dense. / Non voglio spiagge candide / sdraio noci di cocco / vieni con me accompagnami / luce che passi sotto
I bambini che “si bruciano i capelli” leggendo i libri mentre gli altri giocano, la notte che mangia le nubi, una vacanza pigra al paese e l’incontro con il cugino che ha la morosa e “adesso che è cresciuto anche di testa c’è più gusto a chiacchierare”, il gregario di Girardengo che si portava sulle spalle una capra per allenarsi alla fatica (Tre febbraio, altro vertice del disco da collocare idealmente accanto a Il bandito e il campione), “in amore dare avere avere dare non importa / me l’ha detto una signora di Torino e poi è morta” (Con i piedi nell’acqua), quello che scrive al suo amore soltanto se gli tirano la giacca (Se sono solo non ti scrivo, a invertire il cliché).
Quasi un’abitudine, suonato da un plotoncino di musicisti assai bravi (Paolo Maffi al sax, Marco Spiccio al pianoforte, Federico Bagnasco al contrabbasso, Daviano Rotella alla batteria, più ospiti assortiti) vola su musiche morbide tra Francia e jazz. Lo incorniciano due omaggi preziosi e non scontati: Passaggio a livello, canzone intensa quanto poco nota di Jannacci che fu interpretata anche da Luigi Tenco, e Aquellas pequeñas cosas del grande Joan Manuel Serrat, offerta anche nella versione italiana di Gino Paoli (Un’altra estate). Una bella scoperta, un raffinato slow food musicale, contro la fast music che ci intasa le orecchie.