Abbiamo fatto due chiacchiere con gli A morte l’amore per farci raccontare come è nato il loro nuovo album “Non solo moda”
Non solo moda, secondo album del trio pugliese A Morte l’Amore, è sia una dichiarazione di intenti che una supplica: “non solo moda, vi prego!”. Con intelligenza e coraggio, la band passa da uno stile minimalista di impostazione garage, in cui predomina il graffio della chitarra, a un patinato pop che pop non è e che a un ascolto più attento rivela un’inconsueta profondità. Inconsueta, ma non per loro. La loro è provocazione, disillusione e caos in chiave disco punk.
Loro sono Giuseppe Damicis (chitarra e voce), Simone Prudenzano (batteria/sintetizzatori) e Mauro Capogrosso (basso). Abbiamo incontrato Simone per fare due chiacchiere.
In attività dal 2014, ho letto che tu e Mauro avete studiato all’Accademia delle Belle Arti di Lecce, vi siete conosciuti lì? E con Giuseppe?
In realtà ci conosciamo da ancora prima, perché abbiamo frequentato entrambi il Liceo Artistico. In più siamo dello stesso quartiere di Manduria. Anche con Giuseppe, il cantante, ci si conosce da un sacco di tempo. Eravamo già un gruppo di amici che facevano “seratine” nei vari bar e poi abbiamo deciso di mettere su una cosa insieme. Con Mauro, il bassista, avevamo una band da ragazzini e facevamo del metal estremo.
Guardando il video di Io, me, me stesso, primo singolo estratto dal nuovo album, ho notato che anche nello stile e nella grafica avete cambiato parecchie cose, rispetto ai vostri precedenti lavori.
[ride] Sì, quel video lo abbiamo fatto da poco con un bravissimo regista, Daniele Martinis. Questo è il primo video che facciamo un po’ a scatola chiusa, per così dire. Le altre volte siamo sempre stati noi stessi a produrlo, tranne nel caso di Giuditta [primo brano del primo album], che è stato girato da Pierfrancesco Marinelli, un nostro caro amico. Mentre, per esempio, Chi vive d’amore muore di fame [altro brano del primo album] lo abbiamo fatto nel nostro studio con zero budget, credo sia simpatico e poi mi piacciono le cose in cui non accade nulla.
Qual è l’amore che vorreste mettere a morte? Ho letto che in realtà il vostro nome è più una provocazione contro l’uso smodato che si fa di questa parola dai mille significati. Più la si ripete e più si svuota?
Sì, esatto, il senso è proprio questo. Non voleva far trapelare messaggi paralleli o chissà che cosa. Semplicemente ci sembrava suonasse bene, uno “slogan” bello in cui non ci eravamo mai imbattuti, non mi pare di aver mai letto questa “formula”: “a morte l’amore”. Quindi ci sembrava giusto per il nome di una band.
Nel nuovo album, Non Solo Moda, come mai avete deciso di cambiare, passando dal taglio acido e graffiante del primo album verso sonorità molto più elettroniche?
Un po’ è legato alla volontà di alleggerire, ma in realtà, come per il primo album, tutto è nato un po’ in corso d’opera. Non ci siamo poggiati a studi di registrazione o altro, abbiamo messo in piedi un nostro studio con i soldi racimolati dalle vendite del primo disco. Questo ci ha consentito di lavorare in autonomia, ma soprattutto con molta rilassatezza, senza dover prestare attenzione ai tempi di consegna ecc., almeno all’inizio. Abbiamo fatto quello che ci veniva voglia di fare e infatti anche noi siamo rimasti piacevolmente sorpresi da cosa è venuto fuori. Ci interessa solamente che sia lo specchio di quello che stiamo vivendo e a questo giro è andata così. Ci piace l’idea che ogni disco possa essere diverso, mantenendo sempre delle peculiarità, delle caratteristiche nostre. Credo comunque che sia evidente che nei due album sia sempre la stessa band.
Ammetto che al primo ascolto sono rimasto molto colpito dal cambiamento; ci vuole molto coraggio a cambiare così. Molte band continuano nel loro solco evolvendosi molto lentamente, se lo fanno.
Sì, ma infatti alcuni nostri sostenitori sono rimasti sconvolti, spiazzati direi. Si aspettavano da noi un certo tipo di chitarre, che anche nel nuovo album ci sono, ma il loro utilizzo questa volta è funzionale a sottolineare certe parti del testo o certe atmosfere. Fanno delle “comparsate” circoscritte che hanno un senso “nella composizione” invece che di presenza costante.
Analizzando i testi, la musica, ma anche i titoli è evidente una maggiore complessità che apre a sfumature non presenti nell’album precedente, caratterizzato da un taglio molto più netto. Dal bianco o nero siete passati al grigio?
Sì, come dici tu, abbiamo aggiunto dei toni di mezzo, senza lasciare che fosse tutto o bianco o nero. Questo accade anche nelle liriche, di cui si occupa Giuseppe. A mio avviso ha scritto dei testi molto belli che mantengono quella dimensione metafisica che caratterizza il primo disco, però c’è in più qualche indizio che contestualizza tutto in una determinata realtà. C’è quasi una certa ossessività nella parola.
Anche le tematiche trattate sono più complesse e testimoniano uno sguardo più maturo. I testi li scrive solo Giuseppe o è anche una collaborazione?
No, dei testi si occupa solo Giuseppe, anche perché penso che lui sia portato e capace e poi anche molto appassionato. Si lavorava sulla composizione e sulle melodie in fake English e poi lui ci montava sopra delle parole accattivanti. È stato un po’ il nostro modo di procedere. Ovviamente poi c’era un impegno a seguirne l’evoluzione, come se tutti e tre fossimo dei supervisori.
Poi ovviamente sono intervenute persone che ci hanno aiutato nella finalizzazione, come Sante Rutiliano, che ci ha aiutato a mantenere la lucidità, perché a volte dall’interno si rischia di perderla. Soprattutto perché nella fase finale la nostra etichetta, la Goofellas, spingeva per avere il materiale, anche perché abbiamo avuto la fortuna di vincere un bando che si chiama Puglia Sound che ha finanziato in parte il nostro progetto, e ovviamente questo significava avere alcune scadenze.
Cosa intendete per “moda”? E cosa c’è oltre la moda?
Guarda, anche in questo caso la scelta del nome è stata fatta in modo un po’ spassionato, per così dire. L’album stesso, ascoltandolo, con il suo suono leggermente patinato, ci ha fatto sorgere l’idea di poterlo chiamare Non solo moda, perché poi, anche in termini di contenuti, ha questa questione di fondo, per cui abbiamo cercato di spogliarci di ogni narcisismo per ritrovare la parte più primordiale. Quindi c’è il contrasto tra il luccichio di questa futile moda e la questione più intima.
Quindi è come se fosse anche un po’ un augurio, una supplica: “non parliamo solo di moda, vi prego!”
Sì, esattamente! Inoltre era il titolo di un programma condotto da Jo Squillo, nei primi 2000, in cui parlavano di nuove tendenze.
Ho letto infatti una vostra dichiarazione in cui affermate che vi rifate alla musica da Mal alla Bertè, e in mezzo c’è anche quella parte che viene definita trash ma che è potentissima.
Sì, infatti quella roba ci fa impazzire. Anche nel primo album, se ci fai caso, il garage camuffa altre sfumature molto differenti fra loro. Robe all’italiana di quel periodo.
Quindi come definiresti il vostro nuovo album?
Sai, non so dirti, non ci ho ancora pensato anche perché non ho ancora la necessaria lucidità a riguardo. Da quando è andato in stampa faccio fatica ad ascoltarlo. Ora potrei dirti che è una cosa a sé stante, con una identità particolare. Potrebbe sembrare un dischettino futile, ma ha sempre degli spiragli molto autentici a mio avviso, l’esatta fusione delle nostre tre personalità.
Per chiudere, qual è la vostra comfort zone, musicalmente parlando?
La nostra comfort zone credo sia un po’ indefinita, credo sia comfort quando non diventa un limite. Quindi ascoltiamo davvero di tutto, spesso cose che non c’entrano nulla con quello che facciamo. Periodi in cui ci spacchiamo di Turbonegro, che sono una band scandinava che fa del death punk, a cui siamo molto affezionati. Per esempio un loro disco che si chiama Apocalipse Dudes che credo che sia immenso, almeno per me! Per il resto, sempre per me, la comfort zone è il disordine, il caos, perché quando tutto è stabilito mi viene l’ansia, preferisco che le cose siano indefinite. L’idea di imbattersi in una vita dettata dalla routine sarebbe un inferno!