Napoli, in coincidenza nelle festività invernali, non si è illuminata solo delle luci e dei presepi di San Gregorio Armeno ma ha goduto in palcoscenico della contemporanea presenza dei suoi numi teatrali più fulgidi del ‘900: De Filippo al Bellini con Natale in casa Cupiello e Viviani al San Ferdinando con Scalo marittimo
Ritratti diversissimi della stessa città, piccolissima borghesia del terzo decennio del secolo nel primo testo, braccianti proletari migranti del 1918 nel secondo, suoni, personaggi, ambienti e lingue deferentissimi, in un’antitesi e complementarità resa ancor più evidente dai due allestimenti. Fedelissimi e trasgressivi entrambi.
Il classico eduardiano è trasformato dalla compagnia diretta da Lello Serao e Vincenzo Ambrosino in un assolo per attore solista (lo strepitoso Luca Saccoia) cum figuris (le magiche 7 marionette di Tiziano Fario) dalle innumerevoli chiavi di accesso, sonore a partire dalle note della tradizionale carola partenopea Quanno nascette ninno così differente nell’inizio solista e corale in chiusura, oppure si può partire dalle valenze architettoniche della scenografia dei tre atti, prima bidimensionale come un calendario dell’Avvento, poi a tutto palco e infine sacro oratorio ecclesiale privo di autentica azione ad accogliere le voci degli attori-marionettisti intorno al protagonista morente.
Nello stesso tempo il mirabile ibrido tra battute recitate dall’interprete umano e agite dalle figure di legno diventa anche parabola di un Pinocchio alla rovescia dove nel momento in cui le spoglie di Luca Cupiello, trasformato dalla morte in una marionetta, vengono affidate all’Angelo come in una Pietà dei burattini ne rivelano la segreta natura e a quella lo riportano, quella del Teatro e dunque dell’eternità.
Un transito verso il cielo che è risarcimento per i piccoli sogni e le (grandi?) aspirazioni tradite dai fatti della vita di un onesto Jedermann che nell’allestire presepe rivela soprattutto la propria disperata richiesta d’amore, di coesione e di calore, di pace tra le pareti della casa familiare. I meriti si sommano ai meriti e in parallelo lo stupore cresce con lo stupore.
Una meraviglia ininterrotta che parte dall’alto artigianato teatrale tutto esibito (oggetti miniaturizzati, costumi curatissimi, illuminotecnica a vista) per arrivare alla perizia con cui sono mosse le marionette (nel secondo atto, il più movimentato, quasi in una rinnovata regia firmata da Eduardo, riproducono con esattezza mimetica i celebri mezzi-gesti imposti agli attori, la mano appoggiata sul tavolo, il modo di spostarsi sul palco, il cenno fatto col braccio appena alzato).
Per non dire dell’incredibile virtuosismo di Luca Saccoia che con sorprendente naturalezza recita in solitaria tutti le scene del copione (solo parzialmente tagliato) passando da un ruolo all’altro sempre mantenendo per ciascuno le adeguate intenzioni espressive e tonalità vocali.
Sono i tempi mirabili della sua recitazione a dettare e coordinare i movimenti delle figure di legno. «Te piace ‘o presepe?» In questo caso tre volte sì! Anche perché si colloca di diritto tra gli spettacoli più memorabili della stagione e non dovrebbe assolutamente chiudere con le attuali repliche al Teatro Bellini, ma gli dovrebbe esser data la possibilità di venir goduto, apprezzato e applaudito da tutte le principali piazze italiane. (E ci si augura che queste righe vengano lette più come un appello che non come una segnalazione!).
A poca distanza, sul palcoscenico del San Ferdinando (il teatro di Eduardo, tanto per stare in tema!) si è vista la nuova produzione della Compagnia Nest e del Teatro Nazionale di Napoli dell’atto unico con canzoni Scalo marittimo di Raffaele Viviani, testo datato 1918 riportato al pubblico da Patroni Griffi a metà anni ‘70 nel dittico Napoli chi resta e chi parte.
A firmare la regia ora è Giuseppe Miale di Mauro che dirige una omogenea pattuglia di giovani attori napoletani composta da Francesco Di Leva, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino, Andrea Vellotti, Pasquale Aprile, Federica Carruba Toscano, Francesca Fedeli, Irene Scarpato, tutti meritevoli di giusti e adeguati apprezzamenti. Storia di emigrazione di un secolo fa che sembra rispecchiarsi nella cronaca contemporanea, così dichiara il programma di sala «Povera gente! Quante belle energie costrette a disperdersi per il mondo!».
In realtà è un aspetto che emerge fondamentalmente nel finale tragico quando i nomi dei morti tra i flutti marini dello ieri napoletano si accavallano ai nomi stranieri dell’oggi. L’aspetto più interessante della messa in scena risiede invece nel modo in cui è stata trattata la parola di Viviani, riscoperta nei valori espressivi fonetici e musicali.
Tutto qui è stato raggelato, congelato, fotografato in luce e colori diacci, come per poter meglio osservare e approfondire, tant’è che gli attori in certi momenti si immobilizzano come in una fotografia a 2 dimensioni o in un vetrino da microscopio.
L’intera azione viene avvicinata ai nostri anni, commentata e introdotta da un gruppo di attori estranei al testo che cantano le didascalie del copione su musiche d’oggi a somma dei song originali di Viviani. In pieno effetto straniamento brechtiano.
E tanta lezione di Brecht si vede sul palco, perché quella lettura artistico-marxista permette di capire molte ragioni e caratteristiche di questo piccolo ma importante testo teatrale e attraverso il testo della nostra realtà quotidiana. Non si dice una cosa nuova quando si fa il parallelismo tra il drammaturgo intellettuale d’Augusta e quello istintivo campano.
Entrambi nascono sulle pedana del kabarett/caffè concerto, entrambi muovono i primi passi da autori nello stesso periodo del dopoguerra, entrambi si interessano ai sottoproletari e ai fatti di economia, entrambi intervengono con pagine musicali a integrare le scene recitate. Ma il tedesco ne fa una teoria e un metodo, il campano una pratica agita e partecipata.
Così la lettura della Compagnia Nest sommando i due procedimenti restituisce ai vari personaggi, ai facchini che truffano i piccoli borghesi, ai passatori che sfruttano le speranze degli analfabeti migranti, agli armatori che si arricchiscono, non solo la dimensione emotiva ma il senso “economico” delle azioni. Mentre su tutto e tutti incombe il buco nero, la calamita ipnotica e tentatrice dell’ingresso al transatlantico, inferno sconosciuto che non restituisce le sue prede.