Apre domani la sessantottesima edizione della importante rassegna veneziana. L’ultima curata dalla musicista romana che ripercorre le tappe di questi quattro anni e parla degli eventi a cui assisteremo dal 26 settembre all’11 ottobre. Un lungo arco di tempo – dice Ronchetti – trascorso pensando a me non come compositrice, ma come ascoltatrice. Ma, va aggiunto, portando a Venezia autori e autrici del calibro di Brian Eno, Giorgio Battistelli, David Lang, Kaija Saariaho, Helena Tulve, Rebecca Saunders (Leone d’oro 2024)
La Biennale Musica di Venezia ha quasi settant’anni, ben portati. Domani (26 settembre) nella Sala d’Armi dell’Arsenale con 12 autori “diversamente elettronici” e alla Fenice con un nuovo brano di Rebecca Saunders, Leone d’oro 2024, inizia il Festival Internazionale numero 68. L’ultimo curato da Lucia Ronchetti, compositrice che dal 2021 si è impegnata a proporre nuovi sguardi sulla musica d’oggi. Sedici giorni (fino all’11 ottobre) per immergersi nelle diversità di quasi ottanta autori, coordinate sul tema Musica Assoluta. Il programma 2024 è ancora una volta notevole, molto notevole per varietà e attenzione a quel che accade nella musica del mondo.
Lucia Ronchetti (foto @ Andrea Avezzù)
Quattro anni, dal 2021 al 2024, sono un arco “giusto” per rappresentare il pensiero del direttore di un festival di riferimento come la Biennale Musica?
Sì, quattro anni sono un lasso di tempo molto concreto in cui un compositore che fa il direttore artistico può esporre la sua “scena musicale”. Non ho infatti ideato questi quattro programmi pensando a me come compositrice, ma sulla base del mio vissuto come ascoltatore. Naturalmente il mio lavoro e i miei studi mi hanno portato a viaggiare in determinate direzioni: si tratta sempre di una scelta personale, ma ho cercato di renderla il più globale possibile. Non si può rappresentare la scena internazionale senza limitazioni dettate dalla propria cultura, dalla propria visione, ma ho cercato di staccarmi il più possibile dal mio essere compositore.
I quattro temi della “sua” Biennale Musica erano chiari dall’inizio: i Choruses/Cori del 2021 si riferivano a Venezia, alle radici della musica non solo italiana, alle sperimentazioni della Cappella di San Marco come laboratorio del futuro.
Tutti e quattro i temi rappresentano aspetti diversi della storia della musica che si sono sviluppati dalla scuola di San Marco. Temi diversi ma assolutamente complementari. Nel 2021 c’era l’idea della prima possibilità di scrivere per le voci a cappella, senza accompagnamento strumentale, concependo le voci in sovrapposizione come qualcosa che può esprimere completamente l’idea del compositore. In questo sono stati importanti, decisivi Willaert e la scuola veneziana. Sappiamo che a San Marco molti bambini che cantavano nel coro, con cui i compositori potevano lavorare, erano i futuri compositori veneziani. Si facevano sperimentazioni per far sì che proprio quel soprano sembrasse come il fuoco che scoppietta, che varia di continuo, che quel basso sembrasse la terra e che fra queste due voci ci corresse uno slittamento costante. Nel trattato di Zarlino si legge tutto quel che Willaert, fondatore della scuola veneziana, pensava, e che corrisponde alla scrittura attuale per ensemble vocale a cappella.
Il secondo anno, Out of Stage, l’ho dedicato al teatro sperimentale perché anche questo è nato a Venezia come fenomeno complementare alla scuola di San Marco e grazie a quella: molti compositori del teatro ipersperimentale dei primi anni del ‘600 erano compositori e cantori della Cappella. Lo scambio fra le due realtà era continuo, basta pensare a Francesco Cavalli.
Il terzo anno, il festival Micro Music indagava il suono nello spazio, che pure aveva radici nella disposizione acustica di San Marco e nell’organo. Venezia era diventata famosa per essere la città degli organi, moltiplicazione di uno strumento capace di invadere lo spazio architettonico con un suono specifico che tutti sentono allo stesso modo.
Rebecca Saunders (foto @ Astrid Ackermann)
Quest’anno, Musica Assoluta.
Tema ancora una volta importato dalla scuola veneziana, che dal 1500 ha continuato a sperimentare su improvvisazioni per tastiera che erano fini a sé stesse: musica per la musica, senza testo, fatta anche inventando strumenti, sperimentando con la divisione dell’ottava, fino al grande capolavoro maturo della musica strumentale, il primo, L’Estro armonico di Vivaldi. Ci sono due secoli di sperimentazione formale, di come la musica possa permanere nel tempo e diventare una costruzione percepibile per il pubblico. Ripeto, i quattro temi sono complementari e tutti dedicati a quello che ancora oggi conta per il pubblico: l’ascolto.
Pagine come le Sacrae Symphoniae di Giovanni Gabrieli, per voci e strumenti indifferentemente, erano in fondo una pista di decollo per tutto quel che è venuto dopo.
Certo. Anche i musicisti di questo festival, come David Lang, non è detto che sappiano della scuola veneziana, ma non sarebbero sé stessi senza di lei; sono comunque invasi dai dettami di quella scuola. E perché proprio allora, a Venezia? Perché ai compositori venivano concesse condizioni ideali: potevano lavorare tranquilli, osare, inventare. Avevano uno stipendio, erano perfino sindacalizzati. La città lavorava con loro e per loro: gli strumenti, le scene, la stampa. Un paradiso terrestre che raramente o mai si è realizzato più tardi.
Anche perché la Cappella di San Marco non dipendeva dalla Chiesa ma dal Doge, era finanziata dalla Serenissima, era della città.
Un equilibrio straordinario questa indipendenza dalla Chiesa di Roma. L’idea delle pubbliche celebrazioni cui assisteva la popolazione assiepata sulle rive, di un movimento di massa dei cori nella città, anche quella si lega alle voci che agivano dentro San Marco. Il teatro musicale era nato ben prima del 1637: le “Sacre rappresentazioni” nel Medio Evo avevano avuto uno sviluppo straordinario. Si sono ritrovate le trascrizioni degli amanuensi che annotavano la “sceneggiatura” su cui i preti si muovevano per rappresentare i vari personaggi. La bolla papale ha fatto finire tutto questo perché i musicisti veneziani avevano raggiunto livelli di “peccato” intollerabili. Due anni fa ho commissionato a Helena Tulve una sacra rappresentazione ispirata a quegli appunti riscoperti da Giulio Cattin: le sue Visions in San Marco erano una reinvenzione attuale di quei modelli.
Helena Tulve ( foto @ Marco Giugliarelli)
Un momento tra i più alti e simbolici delle sue Biennali.
Mi fa piacere sentirlo. Helena Tulve è una musicista profondamente onesta, che lavora solo ai progetti in cui crede. Ci ha fatto impazzire con le sue richieste, facendo e disfacendo di continuo, ma come estone è anche profondamente credente e avere San Marco come teatro della sua musica l’ha accesa di un impegno vissuto in profondità. E bellissimo è stato l’incontro fra il coro estone che canta la sua musica e il coro della Cappella Marciana, ch’è il più antico del mondo, uniti alle voci dei giovani del Conservatorio. Volevo celebrare Venezia, riavvicinare i veneziani alla Biennale. Il mio è stato un festival non dico reazionario, ma dalla parte del pubblico: ho sempre scelto compositori che propongono anche musica difficile, ma che non lavorano per sé stessi. A causa della pandemia e delle tante sofferenze che ci circondano, ho pensato che la musica debba essere sempre un abbraccio tra chi la fa e chi l’ascolta.
Nei quattro Leoni c’è questo e altro ancora: Kaija Saariaho nel 2021, ultima celebrazione di una grande autrice del dopoguerra, scomparsa nel 2023; Giorgio Battistelli nel 2022, l’anno del teatro; Brian Eno nel 2023, per l’indagine sulla Micro Music; Rebecca Saunders oggi, per la Musica Assoluta. Due donne: affermazione della presenza femminile nella musica d’oggi?
Non sono femminista. Ho scelto le musiche e i compositori che mi sembravano attinenti al tema di ogni anno e sono stata molto rigida in questo. Ma effettivamente più di metà dei programmi è rappresentato da compositrici. Da due o tre generazioni le donne stanno accedendo anche alle più alte istituzioni di formazione, penso ad Harvard, alle Hochschule für Musik di Zurigo e Monaco. Insieme, vediamo crescere giovani compositori di rara intelligenza, che governano la tecnologia, che non hanno paura di niente. Tra i 400 dossier che ci arrivavano da 62 paesi, scegliere solo dieci Under 30 è stata un’impresa. Perciò ci siamo sentiti in dovere di seguire, sostenere, aiutare questi giovani con ogni mezzo, per rendere la loro esperienza un patrimonio da non dimenticare.
E portare ancora un po’ di Venezia nel mondo.
Me lo auguro, perché tra questi giovani ci sono personalità straordinarie. Ne cito due di quest’anno: Hristina Šušak, serba, che il 3 ottobre fa ascoltare un pezzo per quartetto ed elettronica; ha studiato a Vienna e a 26 anni è già professore di teoria musicale alla Hochschule di Berlino! E Alice Hoi-Ching Yeung, 24 anni, di Hong Kong, che sabato 28 settembre presenta un pezzo per tre percussioni; una compositrice vulcanica. Come tante e tanti giovani colleghi, sono entrambe persone felici di avere affrontato percorsi duri. Per loro è normale essere cittadine del mondo.
Perché il Leone a Rebecca Saunders?
Perché non si è mai contraddetta, ha sempre lavorato intensamente sulla musica strumentale, ha rinunciato a molti progetti in cui non credeva; perché, come Helena Tulve, è estremamente onesta, i suoi lavori sono un’esperienza di ascolto anche invasiva, ma sempre profonda.
E Brian Eno?
Una scelta anche criticata, ma che mi viene dagli studi, non dalla suggestione di una fama. Leggo tutto quel che viene scritto in lingua italiana, francese, tedesca e inglese sulla musica elettronica, e negli ultimi dieci anni mi sono resa conto che Brian Eno ha anticipato una visione in cui si riconoscono le nuove generazioni. Elettronica generativa, ambientale, con e senza immagine: una realtà in cui siamo immersi anche senza averne coscienza. Mi sembrava giusto riconoscere a Brian Eno di essere stato un pioniere.
In copertina l’Ensemble Modern, Leone d’argento 2024 ( foto @ Wonge Bergmann)