‘La classe degli altri’ di Michela Fregona ci porta tra i banchi della scuola per adulti, tra esistenze periferiche e scommesse decisive
Ci sono cose che sono, semplicemente, considerate troppo poco: troppo al margine, troppo poco imbevute dello sciroppo al gusto dello spirito del tempo. Cose periferiche, di frangia; cose non-romane, non-milanesi. La scuola, o meglio l’istruzione, quella non griffata, quella senza styling, senza marketing e influencer, galleggia in una vasta periferia di disinteresse e, anno dopo anno dirada verso un vero e proprio deserto. Il suo ultimo confine, molto poco riconoscibile perché abitato da operaie impiegati, ragazze madri, stranieri, e altra umanità non pervenuta, è quello della scuola per adulti, un’acrobazia culturale che sfida le leggi contemporanee della democrazia e che solo la televisione degli anni ‘60 era riuscita a trasformare in un successo dando vita, forse involontariamente, a uno dei primi divi nazionalpopolari, ovvero il maestro Manzi. Più di dieci anni dopo, con lo Statuto dei lavoratori e i Decreti Delegati, e siamo nel 1974, si inizia a parlare di diritto allo studio per gli adulti e nasce il progetto delle 150 ore che si concretizzerà vent’anni dopo; nel 1997. Nel 2000 l’obiettivo delle istituzioni era garantire un’istruzione superiore all’85% della popolazione al di sopra dei 22 anni. Un traguardo molto alto per l’Italia di oggi in cui tre milioni e mezzo di studenti, secondo dati del 2017, hanno già abbandonato la scuola superiore confinandosi in un mondo periferico che porta il segno della più intraprendente disperazione: e la disperazione, a pensarci bene, non appartiene mai al centro dell’impero.
La classe degli altri (Apogeo Editore) è una di queste cose periferiche che non cercano le tavole di nessun imperatore. L’autrice, Michela Fregona, (che peraltro coordina la pagina di letteratura di Cultweek), una delle più grandi domatrici periferiche di disperazione, è una professoressa di Belluno, ovvero periferia montana settentrionale.
Già Venezia è sul bordo. Ma Belluno è un posto che per qualche motivo uno fa perfino fatica a ricordarsi che è nel Veneto. Belluno è una cosa astratta; tipo Rovigo, ecco. E Rovigo – almeno – confina con Mantova e Ferrara.
La scuola per le persone ‘adulte’, che Michela ha scelto già dal 2000, è una scuola attraversata da persone che la loro vita la conducono a passi acrobatici sul filo di un confine fra il possibile e l’impossibile, che è poi il luogo dove vive una gran quantità di persone normali.
“9 marzo 2006. Oggi compio 5123 anni: l’età di tutti i miei stu-denti, meno uno”. La classe degli altri comincia così. Parliamone. Parliamo di come un’atmosfera soft-thriller viva dentro un romanzo farcito di sentimento come un perfetto bignè alla crema; dentro un romanzo che, ambientato in un luogo dove la gente sta seduta per obbligo e statuto, racconta una storia piena di azione.
Il ragazzo “meno uno” è una vita periferica che attraversa la scuola per gli adulti. E conta. I fratelli indiani, e Julio César, e Irina e Gherghina, e Diana, e l’ex Unione sovietica, e l’Africa del Nord, e le lingue mischiate, e la preside tosta, e i bidelli, e l’arabo, e la Ginestra-quella-di-Leopardi, e Santina, e Daniel, e Goran, e Abdel, e i servizi sociali, e Niko: quante cose abitano dentro il mondo di questa scuola, quanta vita; quanto senso. Di questo senso, Michela Fregona non permette che il lettore si perda una sola goccia. Urla, senza gridare, che quelle sono vite che contano, che le materie che si studiano sono belle, che incontrarsi è l’unica cosa che vale la pena di fare al mondo.
La voce narrante – una prima persona femminile singolare – racconta trotterellando una storia di fiera e disperata fiducia nell’umanità. Quello della narratrice è uno sguardo severamente benevolo, sempre preoccupato del senso, sempre alla ricerca della relazione, disposto alla gioia e all’azione. L’autrice sa che le vite che attraversano la scuola cercano una strada su cui camminare un pochino più comode, più consapevoli, più orgogliose di sé. Sono ragazzi che hanno perso un paio di treni. Sono persone che al senso di colpa nei confronti degli altri aggiungono quello nei confronti di se stessi, non importa se e quanta patina di cinismo vogliano verniciarsi addosso.
La prof non è un’eroina, gli studenti non sono sfigati, i colleghi riescono a volte perfino a tenersi bordone. È un mondo a modo suo quieto, ma percorso da una tensione che non è nemmeno giusto chiamare etica, perché è la tensione di chi sa qual è il suo ruolo, di chi cerca di tenere fede al suo scopo, di chi ci prova tutti i giorni.
Umberto Ambrosoli è stato definito “l’eroe normale”. Ecco. La narratrice non è un’eroina e non è nemmeno normale. Nella sua amorosa indignazione, c’è la battaglia di chi nemmeno si domanda più cos’è la normalità, perché ha capito molto bene che la normalità è qualunque cosa.
Michela Fregona è stata a lungo giornalista, e di quel mestiere ha preso la consapevolezza del ruolo civile della cronaca, dell’adesione ai fatti; la chiarezza necessaria a farsi capire. La lettura è liscia, sempre. A volte qualcosa ti trafigge: “imparare una lingua è per prima cosa un fatto affettivo”. Oppure: “Strana cosa, davvero, le radici: si curano, si preservano, si annaffiano. E dopo, un giorno, ti accorgi che, più che far crescere, non ti permettono di andare: ce le hai sempre appresso. Sempre lì a chiederti se è più forte da dove vieni o dove stai andando”.
La storia è una tessitura ad anelli che si intrecciano fra loro: sono matasse che poi si mescolano, e fili che si ritrovano. Una volta si diceva “romanzo corale”. Ecco, questo è un romanzo corale raccontato in prima persona.
Ma Michela Fregona non è la Mastrocola: non ci viene a dire “Signora mia, questi ragazzi non hanno più rispetto”. La narratrice che Michela ha inventato i suoi studenti se li vuole portare dietro fino al diploma, non ha nessun bisogno di colpirli con le martellate della cultura. A lei piace quel che fa; le piace quel che spiega; le piace fare la fatica di trovare un altro modo per spiegarlo, anche se è una gran fatica.