Anagoor porta in scena Artemisia Gentileschi: l’innegabile talento visivo della compagnia e gli spunti di interesse, che pure non mancano, restano imbrigliati in un discorso acerbo, appesantito da metafore insistite e un poco scontate
Non c’è pace per Artemisia. Ben poche figure della storia dell’arte del passato hanno ricevuto le asfissianti attenzioni – tra mostre, cinema, teatro – che Artemisia Gentileschi, figlia del grande pittore Orazio e a sua volta talentuosa pittrice, ha saputo suscitare negli ultimi anni. Sarà la rarità eccezionale di una donna pittrice nata sullo scorcio del sedicesimo secolo, celebrata dai contemporanei e ammirata dai posteri; anzi, per dirla con Roberto Longhi, dell’: «unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, e colore, e impasto». Ma ad impressionare l’immaginario collettivo sarà anche– per quanto sia cinico ammetterlo – la tragica vicenda dello stupro subito, non ancora maggiorenne, da parte di Agostino Tassi, collaboratore del padre Orazio; con il corollario di inevitabili cortocircuiti tra la cruente violenza dei suoi dipinti più famosi e la drammatica vicenda biografica. Ora è la compagnia Anagoor con Et manchi pietà a raccontare di Artemisia. Ad accompagnare il collettivo veneto c’è, in questa occasione, l’ensemble di Accademia d’Arcadia, specializzato nell’esecuzione di musiche barocche con strumenti d’epoca (la Gentileschi fu anche apprezzata suonatrice di liuto). Lo spettacolo, allestito nel 2012, torna ora in scena al Teatro dell’Arte della Triennale in una veste rinnovata (e con musiche registrate ad hoc a sostituire l’originale esecuzione live).
In origine fu Anna Banti, critica d’arte e grande scrittrice (nonché moglie di Longhi). Nel 1944 un suo romanzo dedicato all’artista, allora sconosciuta, finisce bruciato durante un bombardamento di Firenze. Costretta a una seconda stesura, la Banti pubblicherà Artemisia nel 1947: il motivo dell’incendio che ha distrutto il manoscritto originale è diventato nel frattempo motore della nuova narrazione. Da qui muove la creazione degli Anagoor con il prologo recitato da Moreno Callegari a introdurre un percorso in tredici tappe: tredici video concepiti e realizzati dalla compagnia, accompagnati da altrettanti brani musicali dei maggiori compositori dell’epoca. Quasi una sacra rappresentazione muta, in cui biografia e opera dell’artista si intrecciano.
Ma Artemisia sfugge. La narrazione biografica finisce per centrarsi, una volta di più, sull’episodio dello stupro, su troppo semplicistiche rispondenze tra vita e opera; ci si era incagliata, in occasione della mostra milanese del 2012, anche Emma Dante, autrice per l’occasione di un’installazione a base di letto sfatto e declamazione degli atti del processo. Artemisia sfugge, la sua identità è dispersa dal vento come i suoi disegni in una delle sequenze più riuscite dello spettacolo. Restano i dipinti, e ai dipinti bisognerebbe tornare: con i quadri confrontarsi, così come nel bel Virgilio brucia, visto qualche mese fa al Piccolo, si tornava all’Eneide, dopo un percorso che, anche in quel caso ma con ben maggiore maturità, teneva insieme biografia e opera. Invece è proprio la pittura di Artemisia la grande assente dello spettacolo: pochi dipinti, programmaticamente nessun tentativo di confrontarsi ed entrare visivamente nel corpo dello stile: colpisce che l’immagine che apre il percorso sia quella di un dipinto di qualità mediocre, a voler essere generosi una replica di bottega da un’invenzione di Artemisia (è la Susanna e i vecchioni di Bassano del Grappa).
L’innegabile talento visivo della compagnia e gli spunti di interesse, che pure non mancano, restano imbrigliati in un discorso acerbo, appesantito da metafore insistite (il fuoco della creazione artistica che brucia le tele come il manoscritto di Anna Banti) e un poco scontate (davvero non si poteva trovare qualcosa di più originale che un uccellino in gabbia per significare: “assenza di libertà”). Non aiuta l’eccesso di didascalismo che affligge in particolare i due interventi recitati (a mo’ di prologo e intervallo), la principale novità di questa versione rinnovata. Si fatica, così, ad apprezzare le riflessioni tutt’altro che scontate sul rapporto tra teatro e arti figurative (marcato dai continui sipari che disvelano le immagini) o sul potere erotico delle immagini. Meglio quando l’emozione prende il sopravvento: il lutto sobrio per la morte della madre della pittrice, la gioia visiva di un bagno tra garzoni, la coreografia di gesti necessaria per arrampicarsi su un’impalcatura.
Varrà la pena pensare a questo Et manchi pietà come una tappa di crescita nel percorso di una compagnia cui va riconosciuto il coraggio della sperimentazione e capace, negli spettacoli più recenti, di esiti convincenti. Su Artemisia però sarebbe meglio smettere di accanirsi: pietà per Artemisia.