Fatevi portare per mano a conoscere i quaranta personaggi della musica e della cultura – da Bacchelli a Callas, da Eco a Muti – che Lorenzo Arruga, critico e musicologo scomparso un anno fa, racconta in questo suo postumo ‘Accordi#’, tratteggiando con rossiniana leggerezza e ironia la ‘verità’ di ognuno
Musicisti, sì, e chi mai se no? Direttori di ogni repertorio e generazione: Claudio Abbado, Riccardo Muti, Leonard Bernstein, John Eliot Gardiner, Gianandrea Gavazzeni, Daniele Gatti, Herbert von Karajan, Georges Prêtre, Claudio Scimone. Stelle del canto di ogni stile e registro: Cathy Berberian, Maria Callas, Daniela Dessì, Placido Domingo, Leyla Gencer, Ruggero Raimondi, Graziella Sciutti. Solisti eccellenti come Salvatore Accardo, Katia e Marielle Labèque, Maurizio Pollini, Svjatoslav Richter. Ma anche uomini di teatro e registi che hanno fatto la storia: Paolo Grassi, Luchino Visconti, Giorgio Strehler, Pier Luigi Pizzi. Donne della danza, del cinema, della tv e del palcoscenico in vari abbinamenti: Carla Gracci, Fanny Ardant, Sonia Bergamasco. Scrittori i più diversi: Riccardo Bacchelli, Italo Calvino, Umberto Eco. E talenti fuoripista come Giorgio Gaber e Gigi Proietti.
C’è tutto lo sguardo libero di uno scrittore, musicologo, critico, comunicatore capace di virtuosismi nei Quaranta personaggi della mia vita che Lorenzo Arruga ha voluto raccogliere in Accordi# (con diesis, o hashtag, se volete): trecento pagine (Archinto) che sono il suo ultimo atto d’amore per la musica, il teatro, la letteratura, la vita stessa.
Perfino la copertina di Novello – biglietto di ringraziamento per una cena evidentemente di qualità – introduce a uno stato di grazia. Un mondo di arte e di cultura si consegna alla memoria in questi quaranta Accordi# usciti un anno dopo che Lorenzo Arruga se n’è andato, miniature che sconfinano nel teatro, scatenano un piacere della lettura senza inciampi nella retorica e lasciano ammirati per la capacità di leggere la ‘verità’ di ciascuno con leggerezza e ironia rossiniane.
C’è solo un modo per sapere se quel che dico è vero: citare qualche passo della sua prosa, che conosceva l’arte della citazione. Quattro donne e uomini della musica e due scrittori, perché qui gioca un Lionel Messi della lingua italiana. (Citato anche lui, accanto a Mozart, nel ritratto di Sonia Bergamasco, pag.51).
Riccardo Bacchelli
Un amico molto vicino, nel pensiero e nello stile.
«… quando decideva di esprimere un parere, gli usciva spesso una sentenza breve come un motto, costruita mirabilmente, definitiva. Quando li rivolgeva a me, sempre graditi e mai richiesti, di solito accadeva per telefono, di prima mattina. La prima, mezzo secolo fa, quando andava in onda alla televisione svizzera la mia Storia della musica. Eravamo all’opera seria italiana e mi ero molto entusiasmato. “Salve Arruga. Ho visto la sua trasmissione. Le ricordo che per televisione l’estasi, dopo sei minuti, non è credibile”.
L’ultima, in linguaggio da autore nato ai tempi delle brutte copie a mano, ma ormai in tempo di computer, contro la moda degli studi invasivi: “Salve Arruga. Se mai le capitasse di scrivere qualcosa di memorabile, si ricordi di buttar via la minuta, altrimenti va a finire che le fanno l’edizione critica”».
«… maestro è chi insegna, o chi viene considerato universalmente tale; lui, anche se emana insegnamenti, è sempre soprattutto un narratore. Ogni idea e norma prende la propria concretezza di vite umane; per di più tutto diventa occasione di tranquilla, spregiudicata ironia. Per esempio, più che problemi psicologici e morali del secolo, storie vere di personaggi. Come quelli sull’omosessualità. Non era roba per lui, ma non emetteva condanne. Gli piaceva però rievocare vicende curiose e imbarazzanti. Come quella con Bastianelli. Giannotto Bastianelli, raffinatissimo studioso in una società di tabù e virilismo, ‘sospettato’ di disagio con le donne, si vantava di conquiste da gran maschio: “L’altra notte…”. Bacchelli lo interrompe: “Quante volte?”. L’altro: “… ma… dirlo adesso…” Bacchelli insiste: “Di’ un numero”. Bastianelli azzarda: “Diciassette…”. L’occhio di Bacchelli si è fatto amichevole “Giannotto, facciamo così: io non lo racconto, tu non lo dici più”».
Cathy Berberian
Alla fine dell’intervista, l’adorabile e non piccola Cathy dispensava gioielli su Dieci compositori d’oggi visti da lei (Musica Viva febbraio 1981). Eccone alcuni.
«BOULEZ. Ho sempre diviso il mondo in due: quelli umidi e quelli asciutti. E lui è uno asciutto.
STOCKHAUSEN. È un falso-umido. Quando eravamo tutti molto giovani, lo vedemmo in atteggiamento romantico. “Sto cercando Dio”, spiegò a me e a Luciano Berio. Luciano m’ha raccontato che lo ha incontrato recentemente, e gli ha domandato: “E allora? L’hai trovato?”. Mi pare che egli abbia risposto: “Sì. Sono io”.
BUSSOTTI. Fin troppo dotato. Siamo molto vicini. Dovrebbe mettere in scena le cose degli altri, e lasciar fare agli altri le sue. E poi tagliare. Le sue qualità sono grandi: deve guardarsi soprattutto da sé stesso.
BERIO. Umidissimo. Per me è il più grande.
BERBERIAN. Non esiste, come compositrice. Lo so, lo so che ha pubblicato un paio di cose sue. Stripsody e un pezzo per pianoforte; ma sono solo trovate musicali. Una volta, su Communication, una rivista molto intellettuale francese, un musicologo, mi vergogno un po’ a dirlo, ha dedicato alla Stripsody 33 pagine, di cui non ho capito neanche una parola».
Maria Callas
Toccante, vista al tramonto.
«Era la sua penultima opera alla Scala. Quella sera la voce di Maria Callas oscillò un poco sopra un si bemolle e ad aspettarla in camerino era stato visto Aristotele Onassis. Si parlò soprattutto di queste due cose. “Vasto programma” rispose una volta Charles De Gaulle agli studenti che erano arrivati con i cartelli dove stava scritto: “Morte ai coglioni”. Esattamente fino al giorno in cui si seppe che era morta, sola, ancora giovane, nella sua casa di Parigi, milioni di parole e migliaia di pezzi giornalistici si spalmavano sulla straordinarietà del personaggio, la fantastica diva, la discussa voce che stregava le folle: alla notizia prevalse l’assurda meraviglia che potesse morire, la sensazione d’una cruda vedovanza, l’ammissione della sua solitaria grandezza. Infine ci accorgemmo che non riuscivamo a dirle addio. Ma un mese dopo, quando la Scala invitò artisti e pubblico per commemorarla, ci accorgemmo che qualcosa di più stringente e personale, ci aveva preso; Carlo Maria Giulini, in palcoscenico dichiarò sottovoce: “Una giornata così quando era viva non gliel’abbiamo mai dedicata”. Ci sentimmo anche in colpa».
«La rividi alla prova generale dei Vespri siciliani, che apriva il nuovo Teatro Regio di Torino dopo un’attesa di un trentennio dalla distruzione bellica dell’antico. La Callas era stata chiamata alla regia, ed aveva voluto coregista Di Stefano, causando la sacrosanta fuga del direttore Gianandrea Gavazzeni, presto sostituito dal direttore musicale del teatro intrufolato con nobili parole e scadenti azioni. Dopo il primo atto era già chiaro che stavano andando a scatafascio. Le scene, accesissime, di un pittore quale Aligi Sassu, non riuscivano a prender forma e spazio, le masse erano allo sbaraglio. Per ragioni d’ordine chi era in teatro non poteva uscirne e uno che veniva fuori aveva dato notizia che erano scoppiate delle tubature in città e che era morto Picasso. La Callas, dalla consolle a metà sala, sfogliava lo spartito: sopra, Di Stefano si agitava indicando movimenti. Come si arriva a tanta pazzia? La Callas non vedeva da qui a lì, avrebbe qualche anno dopo insegnato a Bocelli, che voleva recitare e cantare in scena anche se cieco, come si possano percepire i tempi e gli stacchi del direttore seguendo le prove, ascoltando da vicino il respiro degli archi. Nell’intervallo sgattaiolai senza permesso accanto a lei. “Sono io” mi disse piano. In quei giorni una cantante giovane veniva salutata, come si fa nel giornalismo mediocre, come la nuova Callas. Tentai una battuta, “Sì, la nuova Callas”. Penso che non immaginasse che qualcuno potesse averlo scritto di un soprano che tutt’al più avrebbe potuto rivolgerle qualche domanda alla Julliard. Mi guardò soave: “Ma no, vecchia o nuova sono sempre la vostra Maria”.
Umberto Eco
Complicità e ammirazione per chi, nel Diario intimo, annotava: “Una delle prime e più nobili funzioni delle cose poco serie è di gettare un’ombra di diffidenza sulle cose troppo serie”.
«Al primo incontro, il Professor Umberto Eco mi raccontò che quel giorno aveva avuto, per ragioni professionali, due problemi: uno era di nomenclatura naturalistica: “Qual è il nome scientifico di quell’animale che a 60 metri sotto terra inghiotte le pietre e popolarmente viene chiamato verdone mangiasassi?”. Non l’aveva trovato, e non lo sapevo anch’io. L’altro era di numerologia mensurale: “Dato che vi sia un pertugio che attraversa la sfera terrestre dal diametro di un metro, se io lancio una pietra nel pertugio, tenuto conto delle diverse forze di gravità nel pianeta e in condizioni normali di calore, arriverà ad attraversarla completamente?”. Risposi che bisognava conoscere anche l’intensità eventuale della spinta. Mi rispose: “No. Si ferma sessanta metri sotto terra. Lo mangia il verdone Mangiasassi”».
«Gli piacevano le risposte brillanti e improvvisando gli piaceva anche diveggiare. Un giorno a un’università stava seduto su una panca con un piccolo taccuino e si divertiva a fingere pareri da guru, per iscritto, agli allievi che si affollavano pronunciando domande. Uno, tutto agitato, gli confessò che una professoressa ostile a una teoria che Eco apprezzava l’aveva cacciato da un esame. Gli porse il fogliettino con la rapida risposta: “Per chiedere consiglio, telefoni al…” seguiva un numero “e chieda del Professor Raskolnikov”. Chi ha letto Delitto e castigo può apprezzare».
«Ebbe un funerale laico. Un giusto atto di onestà morale, chiunque l’abbia deciso. Tutto il giorno però mi veniva in mente un nostro colloquio di qualche mese prima, dove si era parlato anche della morte. “Scommetto”, volli prenderlo in giro, “che ti piacerebbe convincere Dio che non esiste”. “Ti confesso”, mi rispose, “che non mi spiacerebbe l’inverso”».
Giorgio Gaber
Senza sussiego, senza confini.
«… non era un letterato. Mentre altri andavano in biblioteca o ai corsi di scrittura, Gaber cantava nel complesso di Celentano con Jannacci al pianoforte. Ma per esempio a Viareggio quel giorno mi lesse un suo monologhetto sulla difficoltà di far la corte: guardi lei, senti il bisogno di dirle qualcosa di poetico, cerchi nella memoria qualche verso che hai studiato a scuola, maledizione, ti è venuto in mente solo “Frangean la biada con rumor di croste”. Mentre ridevo, mi insinuò: “A proposito, di chi è?”. Gli risposi che era tratto da La cavallina storna del Pascoli. “Ah, dal rumore avrei detto Carducci”».
Riccardo Muti
Vedi sopra, a Umberto Eco.
«Sul ruolo del direttore d’orchestra ha precise convinzioni: “Non può fare progressi se non sbattendo il muso da sùbito contro l’orchestra, cioè contro esperti musicisti”… “Chi si prepara a casa immaginando, è destinato ad arrivare sul podio, sbagliare e chiedersi: com’è che davanti allo specchio mi veniva così bene?”… «Il direttore precede con un gesto il suono, è sempre contemporaneamente in ciò che sente e in ciò che immagina”… “Il podio è un luogo di solitudine”. Ma non rinuncia all’ironia. Quando venne nel 2004 a Tele+3 per una prova pubblica con la giovane orchestra Milano Classica, di cui ero responsabile, raccomandò agli archi bassi: “Ricordate che quando c’è un momento di confusione, siete voi con la vostra precisione a dare il fondamento all’orchestra”. Uno strumentista gli domandò: “E il direttore?”. Muti mimò elegantissimi gesti a vuoto: “Si ispira. E aspetta che le cose tornino a posto”».
«Come tutti gli interpreti veraci, non può concepire di non crescere con le partiture che affronta. Ricordo una sua telefonata dal mitico Festival di Salisburgo, al secondo anno delle sue tante partecipazioni: “Devo dirti una cosa preoccupante. Mi sono affacciato alla finestra e mi sono accorto che i fiori dell’aiola sono sbocciati esattamente nello stesso posto dell’anno scorso».
In apertura, Lorenzo Arruga, courtesy Archinto editore