Adolfo Wildt. Il nome non potrebbe suonare più temibilmente germanizzante. Eppure, più italiano non potrebbe essere questo artista, figlio di un portiere di Palazzo Marino,…
Adolfo Wildt. Il nome non potrebbe suonare più temibilmente germanizzante. Eppure, più italiano non potrebbe essere questo artista, figlio di un portiere di Palazzo Marino, educato a bottega da un barbiere e da un orafo prima di diventar marmista e bronzista nelle grazie di Giuseppe Grandi, quello – per intenderci – della grandiosa fusione in Piazza V Giornate.
E non certo perché con gli italiani, con noi, condivide quella sciagurata tendenza a saltare sul carro del vincitore di turno – allora Mussolini. No, quell’aspetto dell’italianità non è quello che traluce qui, in questa mostra. Piuttosto, è la storia, individualissima, di uno stile che si qualifica come prettamente italiano. Italiano è lo studio del rapporto tra luce e materia. Italiana è l’attenzione sacrale. Italiana è la geografia dei riferimenti culturali del passato. Su questa sicura educazione peninsulare si innesta una reinterpretazione del liberty e del medioevo nordico, in salsa mitteleuropea, che rende Wildt artefice di un linguaggio incredibilmente nuovo e diverso, pur contrario alle tendenze avanguardiste più avanzate. Non ci mette molto a entrare, infatti, nel gruppo di Novecento, refrattario all’innovazione, ma sensibile dal punto di vista linguistico: il gruppo di artisti che, per fare due nomi, negli anni Venti riuniva, pur con storie e percorsi molto diversi, Mario Sironi e Carlo Carrà.
È allora che iniziano a cadere – sempre accanto a San Franceschi consumati, a ritratti esemplari, a Sante Lucie in estasi – i ritratti di regime. E qui, soprattutto qui, sarebbe stato bello che la mostra avesse dispiegato, nel dipanare lo sviluppo di uno stile, qualche accenno in più di sensibilità storica. Perché lo studio dello stile non può andare esente dai pesi e contrappesi della storia. Più di quello esposto, sarebbe stato bello vedere il busto di Mussolini in collezione privata preso a picconate dopo la Liberazione, esposto già qualche anno fa. Oppure vedere qualche spiegazione sotto il ritratto del piccolo Augusto Solari, che donò (premiato a sorte e in cambio di un ritratto di Wildt – quanto era diverso il mondo!) tutti i suoi giovani risparmi agli orfani di guerra. Stona anche mettere Vittorio Emanuele, Mussolini, il fascistissimo Nicola Bonservizi, l’aviatore Arturo Ferrarin troppo vicini a Cesare e Margherita Sarfatti. La complessità della figura dell’avvocato socialista morto prematuramente e di sua moglie – musa di Mussolini, ispiratrice del movimento di Novecento, certo, ma anche costretta a fuggire in Argentina con le leggi razziali – richiederebbe qualche scrupolo in più rispetto alla facile etichettatura che viene loro sempre affibbiata. Provarci avrebbe potuto suggerire, per una volta, una riflessione un po’ più articolata sul rapporto, tutto sommato incompreso reciprocamente, tra Novecento e il fascismo. Come sarebbe anche piaciuta qualche accortezza in più nei cartellini: solamente “marmo” in una mostra su un marmista non vuol dire nulla.
Ma l’ultima stanza è straordinaria, nel suo peso culturale: la densità di conseguenze dello stile di un didatta e maestro come Wildt che si registra, per dirne solo due, nell’opera di Lucio Fontana e di Fausto Melotti, dimostra il suo inserirsi perfettamente in una linea fatta di oro, luce e superficie, che da Piero della Francesca giunge a Boccioni e poi a Fontana. In mezzo c’è Adolfo Wildt, anche, e gloriosamente. Ora è giunto il momento di dirlo; e forse ci aiuta un frangente storico in cui l’estetica dominante, tra Avatar e Star Wars, ci induce a giudizi meno affrettati sulla sua opera, facilmente e spesso derubricabile a monstrum.
Che spesso ci si dimentichi di lui, dice molto su quanto viviamo degli imbeccamenti di Roberto Longhi, che – capita a tutti, talvolta – Wildt non l’aveva capito. Ci dice anche quanto gli artisti capiscano i propri predecessori molto meglio dei critici. Ma soprattutto ci dice che in ossequio a quella nostra inveterata tradizione del balzo all’ultimo sul carro del vincitore, abbiamo un’altra volta dimenticato chi era più facile, perché più esposto, tacciare di quelle accuse che avremmo dovuto rivolgere a noi stessi. Wildt divenne così uno scultore fascista, e basta. Oggi, se quella colpa rimane imperdonabile – e lo si dovrebbe raccontare meglio, nelle mostre, che sono fatte di Storia –, capiamo però che la sua era una direzione personale, che solo in parte si incanalò sventuratamente nell’ideologia fascista. Di fatto, era la direzione di uno scultore e basta, attento ai valori sculturali. Non era vicino alle avanguardie, ma il suo fu un percorso comunque di personale innovazione, straordinariamente ricco di aperture e conseguenze. E allora ci accorgeremo che la sua direzione, pur più complessa e personale, meno inquadrabile, ed anzi proprio ostinata e, all’apparenza, contraria, era quella giusta. Perché contraria appariva soltanto agli avanguardisti più miopi. A noi oggi appare densa della luce del futuro, dei tagli di Fontana, delle linee di Melotti, di Brâncuși, e di Henry Moore, o anche dei fulmini di Walter De Maria, ma qui sconfiniamo nelle predilezioni poetiche di ciascuno.
Immagine di copertina: Adolfo Wildt, Arturo Ferrarin (recto e verso), 1929, collezione privata.