Mentre si concludono le repliche di Memorie di Adriana, il teatro Franco Parenti registra quattro settimane di tutto esaurito. Un’ondata di affetto al talento ma anche a ciò che rappresenta.
Delle declinazioni della nostalgia si sono riempite e si riempiono pagine. Ai linguisti Meacci e Serafini si deve invece il più complesso concetto di emmenalgìa: il desiderio – venato di malinconia – che qualcosa che ci è caro continui, anche e forse soprattutto oltre il confine impossibile da contrastare. Che rinnovi senza conoscere termine il suo fascino, proiettandosi al futuro. Forse è l’emmenalgìa, piuttosto che la nostalgia, ad aver affollato la sala del Teatro Franco Parenti mentre andavano in scena le Memorie di Adriana, inanellando quattro settimane di tutto esaurito.
Perché Adriana Asti trascende – consapevolmente – se stessa, e col suo corpo, avvolta nel velluto di un sipario che si fa drappo di un abito talmente consueto da essere una seconda pelle, riporta in scena un tempo, un lungo istante culturale, artistico, storico, che si vorrebbe custodire fra le dita perché non sfugga. Trattenuto non solo da chi lo ha condiviso, ma anche – e lo ha raccontato la platea, dentro e fuori la scelta registica – da chi quel tempo vorrebbe poterlo prolungare e farselo contemporaneo per poterlo assaporare.
Quelle generazioni più giovani che quel tempo avrebbero voluto poterlo vivere, anziché evocare, rubando magari un po’ della elegante leggerezza con cui declina l’idea di memoria una Signora della scena che è diventata tale proprio perché da sempre contraddice il paradigma della diva, e lo rivendica con orgoglio, scelta “non perché ero bella”, avvinta dalla scena senza sacro fuoco, piuttosto come dovere, sentendosi continuamente fuori posto, in cerca di un luogo – scrive Andrée Ruth Shammah nelle note di regia – “per poi scoprire che forse l’unico posto è il teatro, perché totalmente illusorio”.
Non stupisce quindi che abbia colpito tanto questa “operazione emmenalgia”, che sceglie un racconto garbato e lieve, ironico e schietto, in cui tutto ciò – e chi – è teatro si rappresenta e sorride di sé, guardando-si indietro ma senza lasciar cadere patine sul ricordo, e soprattutto sui volti che lo compongono, perché se ciò che conta di più nella vita sono gli incontri, anche su questo fronte quella di Adriana Asti più che un’esistenza è un mondo intero.
Ci sono tutti, nello scorrere deisuoi pensieri, raccontati per essere condivisi e quindi più agilmente dimenticati, come suggerisce il titolo della biografia su cui la messinscena si appoggia: dalla Ginzburg a Bob Wilson, e poi la fascinazione per il conte Luchino Visconti, fino all’omaggio a Bertolucci, pochi giorni dopo che anche la sua esistenza è diventata memoria.
Adriana Asti invece è presentissima, con la freschezza di un talento educato dalla pratica che non nasconde ma non subisce il tempo che passa, e insieme se ne fa sintesi.
E forse la voglia di far continuare è suscitata anche dalla messa a nudo, dalle fragilità alle adorabili piccole perfidie, dalla dolcezza delle canzoni d’infanzia all’asprezza di chi non la credeva capace di nulla che potesse restare.
Di certo una regina della scena del suo calibro, nella grande varietà di spunti e di mezzi che ha sperimentato e padroneggiato non ha rivincite da prendersi, ma l’affetto che il pubblico le ha tributato in questo affollato mese di repliche è lì a dimostrare la capacità – trasversale – di “continuare” per chi come la Asti custodisce la propria storia e il proprio tempo come una lente per guardare al futuro.