Adua, ultimo romanzo di Igiaba Scego, fa riferimento sin dal titolo al rimosso passato coloniale italiano raccontandoci due vite: un padre e una figlia
Mentre l’ondata inarrestabile di profughi mette in crisi l’identità europea, un romanzo affronta un capitolo ancora oscuro della storia italiana: il nostro passato coloniale.
Igiaba Scego, classe 1974, è una scrittrice italosomala. Fa un bell’effetto scrivere un aggettivo di nazionalità misto finalmente anche in Italia. Ci fa sentire meno provinciali. Soprattutto in questo momento, in cui, sul tema dell’immigrazione, l’Europa si divide tra idealismi e nazionalismi.
Ma forse mi sbaglio, perché a ben pensare gli italiani si compiacciono del proprio provincialismo. Succede per esempio quando l’Italia partecipa a un conflitto armato dove però i soldati al fronte sono sempre buoni. Anche quando partono volontari come successe 80 anni fa in Africa (Mussolini dichiarò Guerra all’Etiopia il 2 ottobre 1935), in una guerra crudele come tutte le guerre, ma che noi ricordiamo con malizioso folklore.
Al (rimosso) passato coloniale in Africa fa riferimento, fin dal titolo, Adua, l’ultimo romanzo di Igiaba Scego, nota ai lettori di Internazionale (ma non solo) per i suoi editoriali in cui si misura la temperatura di quel delicato equilibrio che è l’incontro/scontro fra realtà culturali diverse.
A pubblicarlo è Giunti che – non dimentichiamo è il terzo gruppo editoriale italiano – ha iniziato un interessante discorso intorno alla narrativa italiana (prova ne è anche il recente “acquisto” di Antonio Franchini, editor dal fiuto innegabile, che ha lasciato Mondadori per trasferirsi a Firenze).
Per tutto questo insieme di cose, Adua è una lettura carica di aspettative, in parte deluse. Protagonisti del romanzo sono un padre e una figlia, che si raccontano a capitoli alterni. Due voci e due vite separate che hanno un identico destino: l’Italia. L’Italia fascista che il padre Zoppe ha conosciuto quando il sogno colonialista l’ha coinvolto in qualità di interprete; e l’Italia di oggi, quella di Adua, che è arrivata inseguendo un altro ma altrettanto effimero sogno: quello del cinema.
La vita di Zoppe, in realtà, non è stata un brutta vita: ha un’infanzia felice, è istruito e poliglotta, viene in Italia per lavorare come interprete. Qui conosce la discriminazione e finisce anche in carcere ma poi viene “salvato” da un italiano, e alla vigilia della guerra in Etiopia torna in Africa al suo soldo, ma si sente in colpa. In altre parole, Zoppe è un uomo frustrato, senza identità, ossessionato dalla figura del padre e da quella della moglie morta di parto (metafore dell’Africa ancestrale). E’ un uomo fermo, che nasconde le sue fragilità dietro la rudezza.
Adua scappa da questo padre che non sa dimostrare amore né per sé né per gli altri né per la sua terra, e arriva in un’Italia stereotipata degli anni Settanta che cresce a suon di B-movie, papponi, ostriche e champagne alla romana. Ci rimane fino ai giorni nostri, fino a Lampedusa e ai barconi cariche di speranze, tragedie, e vite umane. Fotogrammi in bianco e nero, senza spessore. Anche il finale aperto – Adua vorrebbe tornare nella sua terra d’origine – è in realtà sospeso nel tempo.
E’ vero, Adua, ha il pregio di affrontare una tematica rimossa in Italia: il colonialismo in Africa, che non è stata la passeggiata naif che viene retoricamente raccontata. Il romanzo ha però il difetto di sembrare un ologramma: non v’è una svolta, un guizzo, nulla che lasci intendere la complessità della ricerca di una propria identità e del guardarsi indietro per fare i conti col passato. Pare che Adua e Zoppe siano come l’Italia; destinati a soccombere sotto il peso del loro provincialismo, fatto di paura, di rabbia e di lamenti.
Adua di Igiaba Scego, Giunti, 180 pagine, 13 euro
Immagine: Moyale East Africa