Tutti a esaltare lo streaming e le differite, tutti a provare a ‘reinventarsi’, ma in realtà a temere che con numeri sempre più striminziti causa obbligo di distanziamento anche i finanziamenti, evaporeranno. Riflessioni da sale sempre più vuote che hanno davanti una lunga, faticosa apnea
Duecento, mille, quattrocento. Colpi? No, posti. Quanti ne potranno sparare i teatri in un vicino futuro che non vorremmo neanche vedere? La Scala, al momento ne ha circa settecento a disposizione distanziata, sui 1784 già ristretti dalle norme di sicurezza in tempi che non sapevamo felici, felicissimi, anche quando bilancio e botteghino non si sentivano troppo bene.
Il Piccolo ne ha 380 sui mille del Teatro Strehler, 187 sui 500 della sala storica di via Rovello e 182 sui 370 del Teatro Studio Melato. Gli altri? Tutti più o meno così, attorno al 30-40 per cento della capienza. Resisteranno queste linee Maginot?
Gli occhi terrorizzati di sovrintendenti e direttori hanno stampato un numero nella pupilla: 200. Sarà questo il limite per tutti? Girava voce, poi smentita. II governo ha giurato che chiusura mai sarà. Il ministro rassicura che non imporrà un limite di posti svincolato dalla capienza della sala. Ma domani, quante promesse potranno essere mantenute? Per ora fidiamoci, anche se pure la fiducia respira male, molto male.
Il 16 ottobre la Scala ha cancellato in extremis, alle 10 di mattina, la conferenza stampa – poco “in presenza” e molto in streaming, come tutto ormai – fissata alle 11.30 per lanciare, si fa per dire, una stagione 2020-2021 destinata a scattare come da una griglia di partenza della Ferrari. Perché? La sera prima erano tornati ad aleggiare gli estenuanti dubbi nel prevedere e decrittare, peggio di un codice medievale, il nuovo decreto che stringeva il cappio una tacca in più. Paura!, ride Lucarelli. Ma c’è poco da scherzare. Duecento posti per la Scala, e non solo per la Scala, sarebbero chiudere le porte e anche buttar via la chiave. Eppure, guardiamoci negli occhi: con questi numeri che ci sforziamo di dare per allegri, oggi quale teatro viviamo?
Diceva Montaigne: “La parola è per metà di chi la dice e per metà di chi l’ascolta”. Ma non solo la parola parlata, anche la parola recitata, la parola cantata, la parola agìta: il teatro detto di prosa e il teatro musicale, con questo pubblico sparuto e spaventato, esiste ancora?
Un pietoso ecumenismo s’impegna scacciare il pensiero sacrilego: pur con poche poltrone, il teatro resta vivo. Sarà, ma inclino a dare ragione a Montaigne: anche con questi numeri in apparenza consolatori, dispersi in malinconiche e rade rappresentazioni di opere monche e di monologhi, di surrogati e derivati, di video e di web, il teatro non è una realtà dimezzata. Semplicemente non esiste. A gran voce si parla di streaming, di dirette e differite tv che non solo bastano a far sentire che esistiamo, ma anzi sono una “straordinaria opportunità”. Bisogna saperla cogliere e cavalcare. Se non succede, colpa nostra o vostra, a seconda dei punti di vista.
Mi sarò distratto, ma non ho avuto il piacere di toccare con mano i numeri di queste miracolose opportunità, Né, soprattutto, di sapere chi ne gode e chi ne va alla ricerca. I ggiovani?
Per carità, i giovani ci sono, eccome. La Scala di Lissner s’inventò l’anteprima del 7 dicembre e gli abbonamenti Under 30, e i ragazzi correvano, sono ancora tanti, non hanno mollato, ma perché? Perché uscivano dal cerchio tutt’altro che magico di emozioni di secondo grado e scoprivano che c’è vita sul pianeta: carne, nervi a fior di pelle, imprevisto, senza applausi registrati. E al Piccolo Teatro, certo, una quota altissima di abbonati e spettatori ha meno di trent’anni. Attratti da? Quel che cercava Strehler nei suoi spettacoli: il teatro come la vita.
Che cosa alimenta il Pensiero Triste? Vedere sovrintendenti, direttori, maestri si fa per dire della comunicazione, uffici stampa e giornalisti uniti nella comune frustrazione dello smatworking affannarsi, ingrigirsi, omologarsi nell’esaltare streaming, dirette e differite come fossero riapparizioni di Maria (Callas), reincarnazioni di Toscanini e Petrolini, resurrezioni di Re Giorgio (Strehler) e nuovi vangeli secondo Luca (Ronconi); tutti costretti a lodare, lanciare, promuovere rassegnate opere senza palcoscenico e disadorni monologhi che già al loro meglio facevano sbadigliare, moltiplicatisi grazie a una legge dello spettacolo che alla voce “produzione” mette sullo stesso piano un solitario speech e una Lehman Trilogy , l’ultimo spettacolo in cui Ronconi spese tre mesi della sua restante vita a provare con dodici attori dalla mattina alla sera.
Alimenta il Pensiero triste, leggere dietro tanti sforzi e molte bugie un solo movente: la paura che il ministero tolga altro denaro, che tante libere menti aperte accompagnino o invochino la giusta punizione col rimprovero di non fare abbastanza per “reinventarsi”, anzi per reinventare un teatro che “come una volta” non si può più fare, e se anche non ci fosse, nessuno ne sentirebbe la mancanza, soprattutto quelli che a teatro non ci vanno mai (quasi tutti i politici, salve le serate d‘onore in cui bisogna esserci, gratis), però possono dire insieme a Totò “e io pago!”. In questa devastazione che prometteva di farci diventare migliori, l’idea che si debba fare a meno del “superfluo”, della cultura che non si mangia, si sa, è tornata libera.
Anche nelle parole di un tenore e un soprano cinque stelle, luci sfolgoranti di grandi sette dicembre alla Scala, leggiamo in modi diversi il pensiero triste: Jonas Kaufmann che teme: “chiudere i teatri sarebbe un disastro”; Anna Netrebko che vede teatro e musica “galleggiare a fatica“ da diversi anni.
Ora è conclamato: il teatro è sommerso, e non nel senso metaforico che si usa per le Sinfonie di Mahler. Una sola speranza: che tutti, proprio tutti, stiano davvero dalla parte del Teatro in quella che si annuncia una lunga apnea, disgraziatamente già iniziata. In attesa che riemerga più bello e più superbo che pria.
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