Cronache da Spoleto, tra il Čechov “progettuale” di Lidi e il Feydeau freneticamente giovane di Cecchi
“Pioggia torrenziale?” – raccontano i testimoni presenti venerdì 23 all’inaugurazione dell’edizione 66 del Festival dei Due Mondi – «Più che pioggia torrenziale sembrava di stare dentro un acquario! Per brevi minuti, terribili, eravamo veramente in un acquario! Ovvio che c’è stata la sospensione».
Le cronache ufficiali si son limitate a riportare la notizia della sospensione del concerto in piazza per pioggia torrenziale e a dare istruzioni per il rimborso dei biglietti. Ovvio che poi sono seguite ore concitate e preoccupazioni di ogni tipo, ma un paio di giorni dopo tutto era già tornato nella norma con la cittadina umbra affollata di turisti e di amanti di ogni forma di teatro, così il lunedì 26 sia i risicati 70 posti del Teatrino delle Sei che l’intero Caio Melisso registravano solo sold out e lunghe liste di attesa di spettatori che avrebbero voluto entrare a Sarto per Signora diretto da Carlo Cecchi e a Zio Vanja per la regia di Leonardo Lidi.
La curiosità correva a 1000 per il “seriosissimo” Cecchi inaspettatamente alle prese con i ritmi frenetici e i meccanismi comici del vaudeville di Feydeau affidati agli allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Giovanissimi interpreti nelle mani di uno dei nostri più autorevoli attori/registi chiamati ad agire in uno spazio neutro dove le porte dagli stipiti bianchi in contrasto col nero della scena fungevano da unici elementi di spicco.
Operazione brillantemente riuscita, sia come lettura del testo, sia come direzione degli interpreti. Con grande attenzione di tutti alla partitura dei ritmi e degli incastri, la regia ha portato a un’inattesa conclusione i complicati intrecci di equivoci, menzogne e implacabili meccanismi comici. Con un occhio speciale proprio alle dinamiche matematiche ad orologeria del copione più che al senso spicciolo degli accadimenti in scena, non si notava neppure una particolare valorizzazione degli aspetti di critica all’ipocrisia borghese della Terza Repubblica Francese.
La soluzione finale (un autentico fermo-immagine cinematografico) in cui le coppie si ricompongono e si ristabiliscono le varie serenità coniugali non viene proposta come rassicurante punto di arrivo, bensì suggerita come momento di ripartenza del folle girotondo… e – da spettatori – si vorrebbe davvero ripartire dalla prima casella. Perché fino a quel momento i giovani interpreti hanno saputo recitare nei tempi e nei ritmi adeguati (sarebbe interessante sapere se Cecchi li abbia “addestrarti” su basi musicali pre-definite, come usava fare Feydeau), in perfetto equilibrio tra le intonazioni delle battute e gli atteggiamenti fisici in debito alle farse del cinema muto. Viene da augurarsi che lo spettacolo, agilissimo per la facilità dell’allestimento, possa avere un futuro su altri palcoscenici italiani come fu dei Sei personaggi pirandelliani diretti da Ronconi che proprio da queste latitudini presero il via.
Di certo lo stesso augurio non ha a valere per lo Zio Vanja di Anton Čechov (foto in copertina) allestito da Leonardo Lidi per lo Stabile dell’Umbria che da Spoleto parte per una tournée fissata nella prossima stagione quando toccherà i principali palchi italiani, con rimarchevoli assenze in Emilia-Romagna. Presentato come “seconda tappa” di un articolato “Progetto Čechov” va visto sia come spettacolo a sé stante, ma anche come lavoro di transizione tra Il gabbiano della passata stagione e Il giardino dei ciliegi programmato per il 2024. Identico il gruppo degli interpreti, di volta in volta in posizione di differente rilievo.
Se nella “tappa” precedente Massimiliano Speziani era stato un improbabile ma credibilissimo Trigòrin seduttore, ora diventa quasi una macchietta (di gran lusso!) nel ruolo che dà il titolo alla commedia. O è un dramma? una farsa? una tragedia dell’umano vivere? Difficile trovare una definizione definitiva per questo capolavoro, di certo si può dire che si offre ad esser declinato teatralmente con molte caratteristiche della commedia cinematografica “all’italiana”. Se Federico Tiezzi ormai cinque lustri fa ne aveva realizzato un mirabile allestimento alla maniera di Germi imprigionando il suo Zio Vanja in un campo di girasoli toscani, ora Lidi recupera lo spirito serio e dissacratorio di un Luciano Salce e realizza una propria versione apparentemente bidimensionale con riferimenti scenografici ai maestri russi, Dodin per primo.
Solo un enorme pannello in legno di betulla come sfondo, a cui si appoggia una semplice panca sempre in legno di betulla. Praticamente tutta l’azione si svolge in proscenio. La vera vita, le storie dei singoli, i drammi di ciascuno, stanno dietro o di fianco, sono altrove, già avvenuti. A noi spettatori arrivano le loro parole, i loro dialoghi, il loro parlare ogni volta con l’interlocutore sbagliato, quando nessun personaggio dice ciò che dice al personaggio a cui dovrebbe o vorrebbe veramente dirlo. Ma si tratta di parole fondamentali considerate in sé, sintesi dall’apparenza banale ma scrigni di esperienze, dolori, aspirazioni, sentimenti quanto mai autentici e universali.
A tradurle in un linguaggio mirabilmente ordinario e corrente ha messo mano Fausto Malcovati mentre ad accelerarle in ritmi forsennati e talora paradossali ci ha pensato la regia di Lidi. Il quale riesce a giocare in contemporanea sia la carta del dramma personale quotidiano, sia quella demistificante dell’ovvio. L’ironia usata mostra “con serietà” quanto sia presente dietro a ogni frase, dietro alle Grandi Verità esistenziali enunciate in tutte le battute, anche alle più celebri, la scoperta di un Čechov disilluso ma partecipe nel guardare e vivere l’essenza umana.
Così ci si trova totalmente immersi in una dimensione da soap opera, con tanto di risate off e quadro/monitor che funge da perimetro visivo a tutte le sequenze finali dello spettacolo con la scena dell’unico momento d’azione dell’intero dramma – i colpi di pistola sparati da Vanja all’intellettuale Serebrijakov alla fine del terzo atto – ripetuto a piacimento in modalità rewind/forward. Sequenza memorabile! Come memorabile rimarrà il ritratto di tutti i personaggi seduti insieme immobili e muti sulla panca in un ritratto di famiglia composto di totali solitudini personali e collettive. Tutti quotidianamente Mostri (per stare nell’ambito della nostra gloriosa commedia all’italiana) per incartapericorimento, per incapacità di comunicare e di rivelare sé stessi, mostri con le fattezze di modernariato occidentale e con tinte almodovariane (mirabile il trucco e parrucco della giovanissima Aurora Diamanti).
Senza un vero protagonista sul palco, perché il testo di Čechov non prevede una figura autenticamente protagonista, ma tutti insieme protagonisti dello spettacolo in quanto, come nella vita, ciascuno è protagonista della propria esistenza. Così la proposta/sfida vinta da Lidi diventa quella di rendere il lavoro di Čechov agito da ognuno dei personaggi come fulcro fondamentale dell’azione, con l’esperienza personale del singolo quale tessera principale e indispensabile del quadro collettivo. Tutti protagonisti e tutti co-protagonisti.
Ciascun attore in scena è apprezzabile proprio in questa dimensione singolare e d’insieme. Tutti magnifici e tutti amalgamati allo stesso altissimo livello di recitazione. Di certo siamo di fronte a una delle compagnie più omogenee e apprezzabili nel teatro italiano di oggi! Che attendiamo con ansia alla terza tappa del progetto perché se Il Gabbiano era l’ascisse spaziale della profondità e questo Zio Vanja costituisce l’aspetto verticale dell’ordinata, Il giardino dei ciliegi dovrà trovare una propria collocazione e una propria ragion d’essere nello spazio non solo cartesiano del palcoscenico.