Curiosa sintesi tra due romanticismi incompatibili, quello del sublime di matrice tedesca e quello italiano che va dritto al cuore, “Linda di Chamounix” del compositore bergamasco sarà trasmessa in streaming il 15 gennaio. Sul podio Michele Gamba
Strana faccenda, l’erotismo in musica, specie in quelle opere italiane dell’Ottocento che gravitano castamente intorno all’angelica protagonista, la quale avrebbe forse voglia di raccontare qualcosa di più al suo pubblico. Sarà forse per questo che poi diventano tutte pazze. Come Linda, che Donizetti considerava la sua pazza meglio riuscita. Linda di Chamounix (1842) è un curioso congegno semiserio che il Maggio ha coraggiosamente messo in scena e ripreso la scorsa domenica davanti a qualche giornalista; sarà trasmessa in streaming il 15 gennaio alle 20 sul sito del teatro. L’opera racconta le disavventure sentimentali di una savoiarda, innamorata suo malgrado di uno sprovveduto viscontino, e per giunta insidiata da un “perverso” Marchese che ricorderebbe Don Rodrigo pure al più distratto degli studenti in Dad. Attorno a loro ci sono un musico errante en travesti, che suona la ghironda come se fosse un organetto schubertiano, il padre di lei, dignitosissimo contadino quasi verdiano con tempra alla Germont, e un Prefetto, garante morale di tutta la compagnia, talmente verdiano che la parte fu scritta per il basso Prosper Dérivis, primo Zaccaria nel Nabucco andato in scena un paio di mesi prima di Linda: quindi paradossalmente non è Donizetti che influenza Verdi, ma il contrario
Questa Linda merita di essere vista per diverse ragioni. Prima fra tutte perché è un’opera che si programma poco, anzi pochissimo, nonostante sia una delle più affascinanti di Donizetti, scritta al culmine di quel processo di modifica delle convenzioni che il compositore aveva iniziato almeno da un decennio, con Lucrezia Borgia. Così anche se la partitura non è un capolavoro da cima a fondo, in ogni pagina si possono trovare diversi motivi di interesse. In secondo luogo perché dal punto di vista musicale questa produzione funziona benissimo. Merito soprattutto della direzione di Michele Gamba, capace di ricordarci che siamo molto lontani dal bozzettismo dell’Elisir d’amore e dalle pastorellerie della Sonnambula: le Alpi di Linda hanno un che di inospitale, persino di crudele, e ce ne si rende conto fin dai rintocchi di campana con cui l’opera si apre, in un’atmosfera quasi ovattata. Ma c’è di più. Gamba sottolinea le raffinatezze timbriche e armoniche dell’opera più nordica di Donizetti – scritta non a caso per il pubblico viennese, musicalmente il più colto ed esigente d’Europa –, senza mai dimenticare le ragioni del canto, tendendo a una curiosa sintesi tra due romanticismi incompatibili: quello del sublime e di matrice tedesca, senza parole (“ohne Worte”), e quello italiano, tutto cantato, che non bada a sottotesti filosofici e va dritto al cuore. E certi passaggi, come la ballata trasognata di Pierotto del primo atto, con la ghironda ricreata in orchestra, o il clarinetto che apre il duetto tra Carlo e il Prefetto del terzo, fanno venire in mente che le distanze tra musica italiana e tedesca ogni tanto possono accorciarsi un poco.
Molto buono il cast, in primis Jessica Pratt, che fa tutti i virtuosismi che ci si aspetta (vedi la tyrolienne “O luce di quest’anima”, grazie al cielo mitigata dalla direzione), ma sa anche costruire un personaggio credibile e commovente, pur senza far capire granché di quel che dice. Bene anche Francesco Demuro, il suo innamorato mammone Carlo, morbido e dolcissimo nella bella aria del secondo atto “Se tanto in ira agli uomini”. Raffinata e molto musicale Teresa Iervolino come Pierotto, sorta di principio di realtà dell’opera. Un po’ oltre il limite del grottesco Fabio Capitanucci nella parte del laido Marchese. Sempre autorevole Michele Pertusi, qui come Prefetto. Convincente e solido Vittorio Prato, Antonio padre di Linda, reso inspiegabilmente vecchissimo nello spettacolo.
A proposito dello spettacolo di Cesare Lievi (scene e costumi di Luigi Perego), non si può dire che il regista abbia dato una lettura convincente di quest’opera, o una lettura tout court. Per la verità non ci sono forzature, ma non si può nemmeno parlare di idee, né buone né cattive. Eppure, che ci sia stato un lavoro approfondito sulla recitazione dei cantanti è fuor di dubbio, specie nell’interno borghese del secondo atto, dove si intravvedono alcune possibilità sfiorate dalla regia, con i gesti che sembrano dire molto più delle parole: lei in preda a una nevrosi tipo Marchesa di O di Kleist, con la rimozione di quel momento di passione a cui ha ceduto e il padre che la ripudia per rispettare le ipocrisia sociali (indimenticabili Edith Clever e Bruno Ganz nel film di Rohmer). Peccato che Lievi non abbia osato seguire questa strada, tentando magari di collegare questo materiale drammaturgico a un’ascendenza tedesca (Lievi ha anche tradotto Kleist per i Meridiani), e smentendo una volta per tutte l’identificazione di Linda con Lucia, dal momento che quest’ultima, francamente, motivi per diventare pazza proprio non ne avrebbe.
Foto di Michele Monasta