Capovolgendo lo stereotipo secondo cui i giovani sono sognatori e i vecchi sono disillusi, il Don Chisci@tte di Nunzio Caponio mette in scena un sessantenne che vuole cambiare il mondo
Due uomini in un bunker: il primo ha più di sessant’anni; dopo una vita passata a fare il contabile, si è riscoperto YouTuber e – con la disinvoltura tipica degli autodidatti – fonde la letteratura spagnola alla fisica quantistica nei propri messaggi rivolti all’umanità.
Il secondo è sulla quarantina, è dominato da istinti più materiali e, per quanto gli obbedisca più nolente che volente, deride il velleitarismo evangelizzatore del padre/padrone. Ma – sembra dire il Don Chisci@tte di Nunzio Caponio, in scena al Teatro Menotti fino al 17 novembre – evviva i velleitari, se sono gli unici a cercare un riscatto in questa valle di lacrime e a non dare per scontato che le cose debbano andare come vanno.
L’espediente del bunker (che comunque è un volgarissimo garage) non è esattamente nuovo di zecca, ma è funzionale al ritratto di due psicologie agli antipodi: quella – appunto – donchisciottesca del protagonista Alessandro Benvenuti, terrorizzato dall’implosione dell’universo per colpa della mancanza di attività immaginativa degli umani, e quella terra-terra del suo assistente/figlio/scudiero Stefano Fresi.
Tutto sommato, però, la mentalità che viene descritta in modo più vivido è quella del secondo, sicuramente la più diffusa e pericolosa: rassegnata e anestetizzata agli orrori della vita, desiderosa di piacere ma anche autopunitiva, perché ciò che non riesce a spiegare razionalmente delle assurdità, delle iniquità e delle tare del mondo, lo spiega con un generico nichilismo della serie «Tanto moriremo tutti».
Ciò che accomuna cavaliere e scudiero – forse l’unica cosa – è comunque la paura del mondo stesso, e la molla dello spettacolo (adattato e diretto da Davide Iodice) è semplicemente: riusciranno a superarla, questa paura?
Scenograficamente Don Chisci@tte (si legge “chisciatte”, possibilmente con inflessione toscana) è impostato secondo l’estetica kitsch o addirittura trash del “fai da te” reso possibile da Internet, la stessa – per intenderci – che ha ispirato pagine Facebook come La piaga dei cinquantenni sul web… un contesto visivamente già molto sopra le righe in cui si collocano le interpretazioni estroverse di Benvenuti e di Fresi.
I due sono affiatati e sono buffi a vedersi, quasi dei pupi travestiti da samurai, ma è comunque Fresi a uscirne meglio, banalmente perché riesce con più facilità a dosare il volume della voce, mentre Benvenuti passa dal sussurro all’urlo con una rapidità che sicuramente al cinema terrebbe viva l’attenzione dello spettatore, ma che a teatro non sempre rende comprensibile quello che dice, tanto che si è costretti a ricostruirlo in base alle risposte di Fresi.
Uno spettacolo con alcune imperfezioni, insomma, che però ha il pregio di prendere di petto delle tematiche che ci assillano ogni giorno della nostra vita.
FOTO © GAIA RECCHIA