“Il colore della libertà”, diretto da Barry Alexander Brown, montatore di Spike Lee (mentore e produttore del film) racconta la lotta per i diritti civili guidata da Rosa Parks e Martin Luther King a Montgomery. E perché anche molti ragazzi colti e di buona famiglia bianca, nel Sud, decisero di scendere in campo contro l’apartheid. Rischiando il loro futuro e sfidando anche gli affetti più cari
Il colore della libertà (stesso titolo italiano del film su Mandela diretto nel 2007 da Bille August) non è l’esordio nella regia del 61enne Barry Alexander Brown, cresciuto nel profondo sud a Montgomery, Alabama, che ha frequentato il liceo della città in cui prende le mosse la vera storia del film, ambientato nel 1961. Già autore in passato di alcuni documentari di pregio, da The War At Home (1979) sull’ascesa del movimento contro la guerra del Vietnam, con cui fu nominato agli Oscar, tuttora utilizzato come “road-map” dal movimento Black Lives Matter, a Sidewalk (2010) in cui ha documentato la vita di alcuni homeless neri newyorchesi, è in realtà noto soprattutto come montatore di Spike Lee in un gran numero dei suoi più importanti film: da Fa’ la cosa giusta a Malcolm X, da Summer of Sam a La 25a ora, fino a Blackkklansman, con cui Brown è stato di nuovo candidato alla statuetta, mentre il film ebbe ben 6 nomination vincendo il premio per la sceneggiatura, oltre al Grand Prix della Giuria al Festival Cannes.
Così non stupisce ora che Spike Lee sia il più famoso dei produttori esecutivi di Il colore della libertà, storia vera di Bob Zellner, figlio di un pastore metodista progressista e nipote di un membro di primo piano del Klu Klux Klan (e quella è stata l’ultima interpretazione del grande attore Brian Dennehy, Golden Globe e Tony Award vinti al cinema e in teatro, fra Peter Greenaway e Arthur Miller, morto a 82 anni nel 2020): Bob, studente bianco (come bianco è del resto il regista Alexander) si schiera con i neri in lotta per i diritti civili, diventa amico della famosa militante Rosa Parks, conosce Martin Luther King, subisce non poche aggressioni da uomini della sua razza, compreso un amico e compagno di scuola, infine viene lasciato dalla fidanzata per bene che parteggia per i diritti civili, ma non esageriamo, non giochiamoci il nostro avvenire.
Tratto dal libro di memorie The Wrong Side of Murder Creek: A White Southerner in the Freedom Movement di Bob Zellner e Constance Curry, il film ripercorre gli ultimi drammatici anni nella storia degli Stati Uniti in cui il Ku Klux Klan era ancora potente, ma in cui si stavano anche vincendo alcune delle battaglie fondamentali per la fine della segregazione razziale. Gli anni di Malcolm X e di King, poco prima dei rispettivi assassinii, videro molti bianchi del Sud prendere coscienza dei soprusi e delle ingiustizie dominanti nella loro realtà. E decidere di fare qualcosa. Così il tema del film è proprio quello della scelta, il passaggio dalla convinzione all’azione, ancor rischiosa per la scarsa tutela offerta dalla polizia, allora come oggi pronta a schierarsi coi bianchi aggressori: perfino quando gli attivisti neri fecero la scelta esplicita della non violenza, altro spunto chiave di un racconto che attraversa proprio quel dibattito complesso, che opporrà in tutti gli anni 60 e 70 le Black Panthers militarizzate ai profeti disarmati dei diritti civili.
La regia riesce a bilanciare con efficacia i temi politici e il lato personale, esistenziale, costruendo un ritratto di giovane colto e impegnato che arriva alla politica attiva attraverso una tesina scolastica sulle relazioni tra le diverse etnie nel suo paese e nel suo tempo, e che attraversa contraddizioni e inquietudini serie, ben rappresentate da Lucas Till, rivelatosi come fratellino di Johnny Cash in Walk the Line (James Mangold, 2005), ma soprattutto noto al grande pubblico come Havok nella serie X-Men. Bob si ritrova a fare i conti con un risveglio morale forse in parte perfino inaspettato, e per cui dovrà scontrarsi anche con affetti a lui molto cari. E le storie dei personaggi si alternano a immagini di repertorio, mettendo in luce la perizia di editing del regista, in un film costruito in gran parte come una sorta di lungo flashback, quasi un incubo di ostilità e oppressione in cui si trova “intrappolato” il giovane protagonista da quando ha scelto da che parte stare. E pensare che da piccolo era stato perfino costretto a partecipare a un orrendo episodio di “caccia al negro”
Nel 2014 Zellner, dirigente negli anni Sessanta dello Student Non Violent Coordinating Committee, è stato scelto dal giornale Time come una delle “17 leggende viventi” del Movimento per i diritti civili, per commemorare il 50° anniversario della Marcia su Washington. Oggi presenta la sua storia sullo schermo, la cui prima bozza di sceneggiatura risale addirittura al 1987, così: «Il colore della libertà è un racconto universale, non riguarda solo l’America e gli Stati del Sud. È la storia di una comunità in lotta per i propri diritti fondamentali, che ancora oggi non sono davvero riconosciuti. I suprematisti bianchi, i neo-nazisti e tutti gli accadimenti sociali e politici degli ultimi tempi sembrano quasi rilanciare questa battaglia. Beh, come recita una delle canzoni sulla libertà che avevamo nel movimento, ‘la libertà è una lotta costante’. Dopo il Movimento per i diritti civili, abbiamo pensato che mai i diritti delle donne sarebbero stati sfidati di nuovo, o che qualcuno avrebbe cercato di limitare il voto alle persone, o che i diritti dei lavoratori sarebbero stati limitati. Ma è successo. Questo film è una vera chiamata all’azione, un’opera che vuol dire: ‘fate qualcosa, non restate in disparte’. Perché rimanere indifferenti vuol dire schierarsi con gli oppressori». E spesso, nella vita, come dice Rosa Parks nel film: “non scegliere è una scelta”. La peggiore.
Il colore della libertà di Barry Alexander Brown con Lucas Till, Lucy Hale, Cedric The Entertainer, Brian Dennehy, Sharonne Lanier, Julia Ormond