Storia di Alba De Céspedes: un’autrice da riscoprire
È un punto di vista diverso, quello di Alba de Céspedes. Un punto di vista troppo a lungo banalmente identificato dalla critica come “al femminile”. Letteratura rosa, per molti. Destinata a finire, come poi per anni è accaduto, nell’angolo del panorama letterario Novecentesco. A dimostrare quanto, ancora una volta, le etichette vadano del tutto a svantaggio di quegli intelletti e di quelle personalità troppo articolate, eclettiche per poter appartenere ad una categoria.
Alba Carla Lauritai de Céspedes y Bertini è una di queste. Probabilmente, se ci soffermassimo alle apparenze persino il nome potrebbe trarci in inganno.
Alba de Céspedes nacque a Roma, l’11 Marzo del 1911, figlia dell’ambasciatore cubano Carlos Manuel de Cespedes y Quesada (che nel 1933 per qualche mese avrebbe ricoperto anche il ruolo di Presidente a Cuba) e della romana Laura Bertini Alessandrini. Una famiglia borghese ed antifascista, la sua, dove la politica permeava la vita di ogni giorno. “In casa si parlava solo di politica e la politica è tutto per me, oltre allo scrivere e alla ricerca della libertà”, avrebbe dichiarato in un’intervista qualche anno più tardi.
La politica e la scrittura, i perni di un’esistenza, ma con una prospettiva diversa.
Una prospettiva che probabilmente le costò quelle restringenti etichette che la avrebbero accompagnata per tutta la vita. Un punto di vista “Dalla parte di lei”. Non una femminista, alla De Céspedes non piaceva essere chiamata in questo modo. C’era qualcosa di più nella sua interpretazione del mondo, della politica, dei cambiamenti sociali dell’epoca fascista e post- fascista attraverso gli occhi delle donne.
C’era la scelta consapevole di raccontare la storia, all’interno della quale tutte le protagoniste create dalla scrittrice sono perfettamente calate, da un punto di vista minore. Siamo talmente abituati, a cominciare dall’impronta data dalla scuola, a concepire la storia come un flusso di eventi dettato dall’agire dei soli uomini da non renderci conto che manca del tutto, o quasi, una chiave di lettura al femminile.
Il filosofo Jacques Derrida avrebbe parlato di fallologocentrismo.
“Io sono per tutti gli oppressi, e le donne lo sono state per secoli. Ne faccio una questione di razza: per me le donne sono una razza oppressa e per questo sto dalla loro parte”, avrebbe dichiarato la De Céspedes.
La scrittura divenne lo strumento di una battaglia personale e di genere, uno strumento attraverso cui sollevare una problematica di giustizia sociale. Sono gli anni del fascismo, anni in cui l’idea di donna si riduce a mero strumento di riproduzione. Donne madri e casalinghe, donne mute, sottoposte ai padri, ai mariti, ai gerarchi.
Nessuno torna indietro, il primo romanzo di Alba De Céspedes, si affaccia sul panorama letterario italiano in questo clima, l’editore è Arnoldo Mondadori. È il 1938 e non passa molto perché arrivi l’intervento del Ministero della censura a richiedere il ritiro delle copie (ritiro che venne sventato dall’intervento di Mondadori, che con la De Céspedes intrattenne un rapporto di amicizia destinato a durare tutta la vita).
Appena un anno dopo la scrittrice sarebbe stata arrestata con l’accusa di antifascismo.
In concomitanza dei primi focolai di Resistenza, Alba De Céspedes abbandona Roma per dirigersi prima in Abruzzo poi a Napoli e a Bari. Restano, di questi anni, insieme alle scritture diaristiche, le veline redatte per Radio Bari in cui Clorinda – questo lo pseudonimo da partigiana di Alba De Céspedes – racconta la Resistenza attraverso i ricordi che accompagnano il suo attraversamento delle linee. Resta Mercurio, la rivista che l’autrice progetta durante la sua permanenza a Napoli e che porta avanti dopo il suo rientro a Roma, ormai liberata. Un progetto culturale al quale aderiscono firme di eccellenza come Alberto Moravia, Eugenio Montale, Sibilla Aleramo, Paola Masino.
Alba De Céspedes, poetessa, scrittrice, giornalista, partigiana, autrice, infine, di letteratura resistenziale. Distante, nella sua elaborazione letteraria della Resistenza italiana, dai lavori delle sue colleghe. Lontana dal lavoro diaristico-documentario di una scrittura privata alla Giovanna Zangrandi quanto da un’opera formalmente più canonica come può essere quella di Renata Viganò.
Dalla parte di lei è un romanzo sulla Resistenza, pur non essendolo in maniera esclusiva. La storia, gli eventi storici sono il grande – e indispensabile – contenitore di una vicenda che dei fatti storici si serve per allargare i propri orizzonti narrativi, i propri risvolti psicologici, le proprie riflessioni sociali a questioni che paiono eternamente connotate di verità. Un romanzo che tale ci sembra fino alla sua conclusione, quando ci rendiamo conto di essere di fronte ad una scrittura tenuta sul tono minore della memorialistica. Sono le memorie difensive di una donna che ricostruisce la propria vicenda per offrire a chi la sta giudicando – e si tratta ovviamente di un uomo- la propria versione dei fatti. Un connubio di memoria individuale e collettiva il cui risultato è un romanzo allo stesso di formazione, storico e di denuncia.
Tre sezioni per tre donne, la madre di Alessandra, Eleonora, la nonna ed infine Alessandra stessa. Tre donne che, in maniera diversa, si scontrano con il ruolo affidato loro dalle convenzioni sociali, alle quali ognuna reagisce a modo suo.
Eleonora si suicida, la nonna, grazie al suo carisma ribalta i ruoli sociali e diviene per tutti “la padrona” ( “La casa è nostra, i figli sono nostri, siamo noi a portarli, a nutrirli: dunque la vita è nostra”, spiega alla nipote), Alessandra, infine, si ribella con un gesto di violenza estrema: l’omicidio del marito. La distruzione di quell’angosciante “muro di spalle” che la separa dalla gioia di un sentimento impedito dall’incomunicabilità tra uomini e donne.
La visione, tutta particolare, degli anni della Resistenza muove da questi presupposti. Per Alessandra, La Resistenza è innanzitutto un fatto privato, di natura sentimentale. Sposata con Francesco Minelli, partigiano simbolo della Resistenza romana, Alessandra da principio osserva ciò che accade dal di fuori, spettatrice di un evento dal quale viene tenuta distante dal marito stesso, in attesa di un dopo che però sembra non arrivare mai. In questo senso l’amore diventa un tema centrale (e la principale causa di una cattiva comprensione dell’opera da tanta parte della critica) e si rivela la principale fonte di raccordo tra gli innumerevoli piani narrativi dell’opera. La protagonista plasma sui suoi sentimenti di donna incompresa il ruolo di partigiana (“Nessuno aveva intuito quanto amore portassi dentro di me e quale desiderio avessi di esprimerlo”, scrive riferendosi al trasporto di bombe all’interno di una cesta di verdure”).
Attraverso il personaggio di Alessandra, Alba De Céspedes porta a compimento quel suo progetto di restituzione di una memoria storica e politica non più univoca. Correndo persino il rischio, come poi è accaduto, di attirare riserve dal suo stesso editore per la scelta di un epilogo tanto violento.
Dalla parte di lei resta comunque, senza alcun dubbio, un romanzo sulla Resistenza, con l’accortezza di non soffermarsi alla sola versione ufficiale dei fatti, della storia per non cadere nel rischio di relegare un’opera tanto raffinata ad un ruolo minore.
Per non persistere nel catastrofico errore di sminuire non solo, complessivamente, l’enorme valore di una intellettuale come Alba De Céspedes, ma di gettare al vento l’impegno di una donna che ha lottato perché altre donne come lei potessero essere considerate portatrici di verità non più minori.