Il concerto del musicista italiano al centro della serata tutta novecentesca dei Pomeriggi Musicali
Nel cuore del Novecento il compositore italiano Giorgio Federico Ghedini scrive il Concerto dell’albatro (1945), ispirato a una pagina del Moby Dick di Melville, che è stato riproposto il 14 marzo dall’Orchestra dei Pomeriggi Musicali, sotto la direzione di Andrea Battistoni, con la partecipazione del Trio Modigliani e dell’attore Alfonso Antoniozzi.
Solo dal settecento l’albatro è entrato a far parte del bestiario simbolico della poesia, i cui vertici letterari sono la Ballata del vecchio marinaio di Coleridge (alla quale il passo del Moby Dick fa esplicito riferimento), e le celebri rime di Baudelaire.
Ma a un altro magnifico verso di Baudelaire la mia mente è andata non appena hanno risuonato le prime note del Concerto di Ghedini: «Spesso la musica mi afferra come un mare» (La musique). E’ un mare, infatti, quello che attraverso gesti sonori essenziali viene evocato lungo i vari movimenti della composizione; ma, più che un mare reale, è un oceano dell’anima, con le sue piatte desolazioni e le violente tempeste, che riesce a trovare pace solo all’apparizione di un’immagine quasi ultraterrena, quell’albatro bianco che fa inchinare Ismaele «come Abramo davanti agli angeli».
L’impegnativa composizione di Ghedini è stata eseguita con grande intensità da tutti gli interpreti, guidati dalla solida e precisa direzione di Battistoni.
Oltre a Ghedini, il concerto prevedeva altri due brani: le Danze di Galanta del compositore ungherese Zoltán Kodály e Vatel, brano per voce recitante e orchestra di Marco Tutino, una prima esecuzione assoluta commissionata dagli stessi Pomeriggi Musicali.
Il testo scritto da Angelo Calippo ripercorre la vicenda (divenuta nota grazie a un film del 2000 con Gérard Depardieu) di François Vatel, il cuoco che inventò la crema chantilly e morì suicida per il disonore del “fallimento” di un sontuoso banchetto in onore di Luigi XIV (sembra che non arrivò in tempo il pesce fresco per circa tremila persone).
Una prima esecuzione è sempre accolta con interesse e timore, soprattutto da quella numerosa fascia di pubblico ferma nell’ascolto alla fine dell’Ottocento. Fortunatamente per loro, Vatel è stato il brano più tonalmente rassicurante del concerto, fin troppo.
Definita dallo stesso compositore un melologo, Vatel aveva più la fisionomia di una lunga colonna sonora, sopra la quale il bravo Antoniozzi si affaticava a leggere velocemente un testo troppo lungo, che in molti punti veniva pure sovrastato dall’impetuosità dell’orchestra, rendendone difficile la comprensione.
Orchestrazione raffinata e temi melodici e appariscenti il punto forte della composizione, che però è rimasta alla superficie del dramma, e di cui poco o nulla rimane dopo l’ascolto, nemmeno un retrogusto, dolce o amaro che sia.
Il concerto si è poi concluso con le Danze di Galanta (1933), in cui melodie nostalgiche si alternavano felicemente a sfavillanti ritmi di ispirazione popolare: un bel finale, insomma, che ha nuovamente messo in luce la maestria dell’orchestra (nel suo complesso e negli a solo) e il talento direttoriale del Maestro Battistoni.