Le domande di Alessandro Bertante

In Interviste, Letteratura

Abbiamo incontrato Alessandro Bertante e abbiamo parlato del suo ultimo romanzo “Gli ultimi ragazzi del secolo”, candidato al Campiello

Dal viaggio nascono le domande o viceversa? È pretestuoso – e pretenzioso – rispondersi, anche perché chi vi scrive crede siano un’unica entità. È come voler sapere se sia nato prima l’uovo o la gallina; se due più due faccia davvero quattro. L’importante, parafrasando Camus, è chiedersi… avere il sospetto d’altre cose oltre le abitudini dritte, asfaltate. E nel 1996, tra le montagne bosniache – testimoni oculari di una guerra fratricida appena terminata – ad un ventisettenne laureando milanese, che guarda il paesaggio sfilare dal vetro della macchina, viene il sospetto di quel qualcos’altro e inizia a porsi delle domande… una corda tesa dalla quale scocca tutta la successiva narrazione:

“Cerchiamo delle risposte ma non credo che le nostre domande siano quelle giuste. […] Durante questo viaggio parliamo poco. Siamo entrambi delusi, affaticati da una vita che consideriamo ingiusta. […] I ricordi possono ingannare… quando è stata la prima volta? Quando è che la storia è ripartita senza chiederci il permesso? Come siamo arrivati a questo punto?”.

Queste sono solo alcune frasi dal nuovo romanzo di Alessandro Bertante Gli ultimi ragazzi del secolo, da qualche settimana inserito nella lista dei cinque finalisti al Premio Campiello. Perché partire proprio da queste parole? Perché scegliere queste e non altre? Soprattutto perché iniziare con delle domande che, non vi inganni il tono, di retorico hanno niente. Questi sono interrogativi con più muscoli e ossa di una risposta! Ed è cercando di darmi e darvi una risposta che ho pensato di rivolgermi direttamente a chi queste domande – venti anni fa – se le è poste… Bertante appunto. Il piacevole scambio di parole, durato quasi un’ora, con questo scrittore dal sorriso costantemente indagatore – nato alla fine degli anni ’60 e vissuto in quel coacervo di esperienze politiche, ideologiche, vividamente crudeli che era la Milano degli anni ’70 e ’80 e che sono alla base del suo libro – non poteva che iniziare con una mia domanda sulle sue domande, e più in generale quanto sia necessario porsele, oggi più che mai:

Bertante: Porsi domande significa avere idee di futuro, sogni, speranze… vuol dire andare oltre il quotidiano, oltre i semplici bisogni primari. Noi occidentali, da tempo purtroppo, abbiamo smesso di porci domande – soprattutto quelle giuste, importanti…

CW: Quali sono quelle giuste?
Ad esempio, perché viviamo in un periodo di forti ingiustizie sociali o perché i vecchi hanno diritti per sempre! Acquisiti decenni fa… quegli stessi diritti che oggi invece sono negati. Insomma, credo che quando queste domande diventeranno pressanti, vitali… forse tra venti o trenta anni ci sarà una guerra civile.

Ricorre spesso nella tua scrittura il tema del passato e del suo rapporto con il futuro o di un futuro condizionato da un passato sbagliato. Perché per te è così forte questa esigenza temporale?
Più che su queste cose, l’interrogazione che mi faccio in tutti i miei lavori è sullo scorrere del tempo… la verità, io credo, è che a partire dagli anni ’80 viviamo in una sorta di eterno presente e ha tanto poca importanza il passato quanto l’idea di un futuro.

A questo punto – sui diritti negati, sulle ingiustizie sociali, sul presente il passato e il futuro – mi è venuto abbastanza spontaneo chiedere se avesse una qualche validità la mia sensazione che i suoi personaggi fossero intrisi di un senso di colpa storico nei confronti delle nuove generazioni e allo stesso tempo si sentissero come l’ultimo, l’unico baluardo prima della totale sconfitta della società contemporanea.
I miei personaggi – e quest’ultimo più di tutti – si sentono degli ultimi; ma nel senso di ultima generazione del ’900 propriamente inteso… quella degli anni ’80.
Per ’900 intendo il secolo delle moltitudini, delle utopie, delle grandi ideologie. È proprio per questo motivo che i miei personaggi più che sentirsi in colpa, si sentono inadeguati… hanno un profondo senso di inadeguatezza. Noi che abbiamo vissuto a pieno quegli anni ci sentiamo inadeguati perché abbiamo i mezzi ideologici – propri del ’900 – per capire questo nuovo tempo e ciò che di sbagliato c’è in esso, ciò che di esso non ci piace. Abbiamo i mezzi per capirlo ma non abbiamo i mezzi per cambiarlo! Sostanzialmente abbiamo subito – e continuiamo tutti a subire – l’influenza del ’68. Una generazione che si è auto-mitizzata e ha saputo raccontarsi… ha saputo creare una narrazione di se stessa leggendaria che ancora oggi ci propinano; ma è una narrazione falsa per un semplice motivo: gran parte di quelle stesse persone sono diventate ciò che combattevano!

E se per un caso strano, non fossi un figlio di quegli anni ma del XXI secolo, in che modo sarebbe cambiato il tuo ultimo romanzo – o in generale il tuo modo di relazionarti alla scrittura?
Impossibile dirlo. Molti e radicali sono stati i mutamenti negli ultimi trenta anni… soprattutto una tra le rivoluzioni più importanti dopo quella industriale per la nostra società: la rivoluzione tecnologica. Innanzitutto è venuto meno il concetto di distanza, che quelli della nostra età hanno invece ben chiaro perché lo hanno vissuto. La realtà oggi è un semplice simulacro di esperienze; c’è solo la sensazione della prossimità, però poi…

Altro tema spesso presente nei tuoi lavori è il viaggio. Perché è così tanto importante? Cosa nasconde?
Il viaggio è scoperta, rivelazione e noi abbiamo bisogno di rivelazioni perché sappiamo davvero poche cose… sappiamo davvero poche cose, sì!

Se non fossi stato tu a scrivere Gli ultimi ragazzi del secolo, cosa penseresti del romanzo?
Direi che è generazionale, ambizioso. Soprattutto, se avessi vent’anni, guardando la copertina mi chiederei quanto possa e perché dovrebbe interessarmi un libro così. Mi sembrerebbe un libro di parte… e infatti lo è!

Quali sono gli autori che maggiormente ti hanno influenzato?
Dostoevskij assolutamente. Ammiro la sua modernità e la capacità di introspezione. Michail Bulgakov per il suo sguardo magico che è presente in molti miei romanzi. Di Marguerite Yourcenar, invece, ammiro il profondo senso della storia… e l’umanità di Romain Gary.

Cosa consiglierebbe ad un aspirante scrittore?
Di diventare prima un lettore.

Se non ti guadagnassi da vivere scrivendo… se non fossi uno scrittore, cosa saresti voluto essere?
Coltivo da sempre la passione per il vino. Ho anche un diploma da sommelier… ecco: mi sarebbe piaciuto essere un enologo. Chi lo sa! un giorno forse…

Ci siamo salutati con quest’ultima domanda e imboccando la via di casa mi sono saltate alla mente queste due frasi:

“Non si scrive perché si vuol dire qualcosa; si scrive perché si ha qualcosa da dire!”.

Se queste sedici parole hanno, oggi, ancora un senso (e se mai l’hanno avuto), non possono che trovarlo nel lavoro di Alessandro Bertante e nelle sue esperienze, declinate con intelligente semplicità nei suoi ultimi ragazzi del secolo.

 

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