Aldo Manuzio ha regalato all’umanità un nuovo modo di stare tra sé in compagnia della parola scritta: Alessandro Marzo Magno ne ricostruisce la vicenda umana ed editoriale restituendo con minuzia il fitto contesto di relazioni che permise ad un cervello ingegnoso l’esercizio di una grandissima libertà intellettuale. A beneficio di tutti noi.
Se oggi le storie possono seguirci per qualsiasi stanza della casa e in qualsiasi luogo della nostra vita.
Se possiamo prendere le misure del perimetro mentale di un libro andando a consultarne l’indice.
Se sappiamo esattamente a che punto stiamo, tra un prima e un dopo, semplicemente guardando la numerazione delle pagine.
Se, mentre seguiamo il testo, respiriamo insieme a lui attraverso punti, virgole, apostrofi.
Se, in traduzione, ci aiutiamo con l’originale a fronte, saltando in orizzontale tra i fogli appaiati.
Se, perfino, leggiamo in silenzio. E lo facciamo non solo e soltanto per studio o per compito, ma per il piacere stesso della storia, in un dialogo intimo tra ciò che sta scritto e noi stessi.
Ecco: tutte queste cose cose non sono sempre state così.
Ognuna di queste pratiche ha però la medesima origine: e questa sta in un preciso nome e cognome.
Alla storia di questo uomo, alle sue relazioni, alla sua inesausta volontà di creare dedica il suo nuovo libro il giornalista Alessandro Marzo Magno, che pubblica per Laterza L’inventore dei libri. Aldo Manuzio. Venezia e il suo tempo.
Il titolo così articolato rivela quello che è l’intento di questo volume: che è sì quello di ripercorrere la storia del padre della moderna rivoluzione della lettura, ma contemporaneamente quello di collocare la sua vita all’interno del contesto storico e dei legami di relazione che hanno favorito e permesso un cambiamento tanto radicale.
Torna in qualche modo, dunque, come un bordone, il bagaglio di quello che fu uno dei primi successi di Alessandro Marzo Magno, L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (pubblicato nel 2012 da Garzanti, tradotto e ristampato più volte): di quello che Aldo Manuzio riuscì a realizzare nella sua vita, la città lagunare è qualcosa di più di uno scenario di fondo; è, piuttosto, una amorosa coprotagonista, in tutto e per tutto ricambiata da una impresa di successo.
Una memoria di cui, paradossalmente, scovare oggi le tracce nella città è cosa labile e faticosa. Eppure il quadro che ne viene tracciato è impressionante:
“Prima della fine del XV secolo nella Dominante – così veniva chiamata la capitale dello stato veneziano – sono attivi dai 150 ai 200 torchi che stampano in quel periodo il 15 per cento dei titoli impressi nell’intera Europa (4500 su 30 mila), con tirature che variano da un centinaio alle duemila copie. La percentuale sarà destinata a salire fino alla metà quasi dei titoli europei”
Sulla pubblicazione a stampa non soltanto si campava, insomma: ma si disegnava pure una decisa metamorfosi di attività e intenti che in pochi decenni cambia Venezia, e che da Venezia emana in modo competitivo e performante (in antagonismo con Firenze, l’altra possibile contenditrice di scettro in campo editoriale) per dialogare con tutta l’Europa – e oltre.
Da Venezia parte insomma una “via del libro” – così, ricorda Marzo Magno, la definisce il filologo Vittore Branca – che mette una pezza alle falle dell’ormai disastrata “via delle spezie”, la cui gloria viaggiava in picchiata: che in poco più di trent’anni vengano stampati circa due milioni di volumi dà contezza del volume di scambio. Il libro è diventato un bene che circola.
A Venezia si consuma, si legge, si richiede in tutte le classi sociali.
Tant’è che nel 1537 si pongono le basi per la prima biblioteca statale pubblica, cioè destinata ad essere utile al pubblico: quella che diventerà la Marciana.
In questo contesto approda dunque Aldo Manuzio, dal cui naturale riserbo Alessandro Marzo Magno riesce a scalfire materiale bastevole per rimetterne in fila i precedenti spostamenti tra Roma, Ferrara e Carpi, illuminandone con vivacità il pensiero ricorrendo a una imponente e suggestiva messe di voci di prima mano: citazioni dello stesso Manuzio, considerazioni di letterati e amici che lo frequentarono, dediche, lacerti di documenti.
Quando arriva in laguna, Manuzio è un insegnante di greco che non ha nozioni di impresa. È però uomo di ingegno e di contatti: non è difficile leggere in controluce come il suo nome diventi in breve una sorta di snodo obbligato, una centrale operativa del sapere umanistico nella quale si incrociano cervelli come quelli di Erasmo, Ariosto, Pico della Mirandola.
“Verrà pubblicato tutto ciò che merita d’esser letto”, dice, lapidario, quando decide di avviarsi alla società tipografica: affermazione, insieme, di coraggio e di libertà (non si può dimenticare che in quegli anni l’Indice era un grazioso tritacarne con fauci sempre affamate).
L’incontro con Venezia è una di quelle combinazioni determinanti e geniali che, quando avvengono, disegnano nella storia solte precise: nessun’altra città, probabilmente, era al pari abbastanza distante dalle volontà di San Pietro, abbastanza potente da poter scommettere su nuovi traffici, abbastanza meticcia da vivere in un vero e proprio cosmopolitismo culturale: una città di stranieri “con propri luoghi di culto e confraternite: greci armeni ebrei tedeschi dalmati” ricorda Alessandro Marzo Magno.
Un unicum in termini di libertà di pensiero e spregiudicatezza. Dove, altrimenti, si sarebbe potuto imprimere alla luce del sole tanto il primo libro pornografico della storia (i Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino), quanto il Talmud?
In questa temperie prende forma l’avventurosa nascita del libro tascabile, che compie giusti giusti cinquecento vent’anni.
L’ enchiridio, che sta dentro le mani, è l’intuizione che fa la svolta nella storia del libro, della scrittura, dell’umanità. Per arrivarci Aldo Manuzio non risparmia i suoi giorni: lo vediamo impegnato a fare scouting tra Milano e la Lombardia (non senza aver fatto testamento prima di partire, a testimonianza dei pericoli che si assume), finire incarcerato a Mantova per uno scambio di persona (evidentemente la sua prudenza era motivata), lamentarsi della difficoltà di trovare un testo integro in mezzo alla selva dei cacciatori di manoscritti, avventurarsi sulla scommessa di stampare in greco, concedersi il lusso di pubblicare il più bell’enigma della storia della letteratura, la Hypnerotomachia Polyphili.
Il piglio è quello di un cervello che apprende e insegna insieme. Non a caso Alessandro Marzo Magno ben evidenzia quella parte della vita di Manuzio nella quale, in qualche modo, si forgia il suo stesso approccio al sapere, contestualmente a una precisa idea educativa.
È anche e sempre, la figura tracciata da Marzo Magno, quella cresciuta dentro il mestiere di maestro, che sperimenta una propria didattica (latino e greco vanno insegnati insieme, e non prima l’uno e poi l’altro come usava), che spingeva per far leggere i classici in lingua originale, che aveva una sua idea sulla memoria, strumento da utilizzare con oculatezza: pena la fuga a gambe levate gli studenti costretti a mandare a mente testi inutili odiando le lettere prima ancora di poterle amare. Un maestro che si fa la sua propria grammatica: regole facili, dice Manuzio. Che si impunta, una volta diventato editore, a ignorare bellamente la grammatica più in voga, il Docrinale puerorum del monaco francese Alexandre Villedieu, nonostante il possibile guadagno, che non stamperà mai: perché non gli piace.
Vivace, umano, ambizioso, geniale, pratico: l’Aldo Manuzio che il libro di Alessandro Marzo Magno restituisce (per inciso: una edizione devotamente curata e stampata, un vero piacere per gli occhi e per il tatto) è un uomo che precorre i tempi a venire, ha un intenso dialogo con la classicità e vive profondamente nelle relazioni della sua epoca.
Un uomo in grado di parlare di noi, anche – e più ancora – in tempi estremi, con uno sguardo di prospettiva universale:
“Se si maneggiassero più i libri che le armi, non si vedrebbero tante stragi e tanti misfatti, tante brutture, tanta insipida lussuria”