L’Accademia della Scala supportata degnamente dall’esperienza registica di Liliana Cavani porta sul palco del Piermarini “Alì Babà e i quaranta ladroni”, opera senile ma piacevole e leggera del musiciste fiorentino
Tocca all’Accademia della Scala riaprire il teatro dopo le vacanze. Vacanze solo nostre, visto che solisti, orchestrali, coristi e ballerini dell’Accademia erano tutti qui impegnati ad allestire il rarissimo Alì Babà e i quaranta ladroni, fatica senile di Luigi Cherubini presto dimenticata, salvo un’esecuzione alla Scala nel 1963. Successo per tutti. Meritato vista la difficoltà della sfida con un’opera ambiziosa e complessa: quattro atti più un prologo di cori, danze, arie e ariosi impegnativi, turcherie che tendono al grand-opéra, con Cherubini che vuole dire la sua negli anni del «nuovo stile» dei Meyerbeer, degli Auber e degli Halévi. Il vecchio professore di Conservatorio si mette in gioco un’ultima volta e lo fa con una fiaba, sfidando a colpi di strumentini orientali una nuova generazione spesso impertinente – è famosa l’uscita di Berlioz alla prima: «Do venti franchi per un’idea», anche se è difficile che proprio lui non notasse la ricercatezza dell’orchestrazione, specie di alcuni controcanti dei fiati.
Forse è un po’ grossa dire che Cherubini abbia scritto un Falstaff, ma che la Scala abbia recuperato Alì Babà va apprezzato non solo per la curiosità “melomaniacale”, ma perché si tratta di un’opera piacevole, leggera e soprattutto ben eseguita, circostanza che in effetti si gradisce proprio sempre. Erano otto i solisti dell’Accademia coinvolti nel debutto di sabato sera insieme a una giovane promessa russa, il basso Alexander Roslavets, altri sette comporranno un secondo cast che si alternerà nelle recite. Tutti bravi e credibili, in particolare Francesca Manzo e Riccardo Della Sciucca, che convincono subito per sicurezza, musicalità e senso della scena. Una compagnia così equilibrata non si trova facilmente nei teatri, tenuto conto che anche i ruoli minori hanno parecchio da cantare.
La vivacità dello spettacolo è merito del lavoro di Liliana Cavani che, pur senza grandi idee, mantiene viva l’attenzione dello spettatore. La regista si serve di una cornice per introdurre la storia durante la sinfonia: una biblioteca in cui si assiste ai primi tumulti amorosi dei protagonisti, sublimati poi in un viaggio avventuroso nelle Mille una notte, un po’ Storia infinita un po’ Pagemaster. Peccato che l’idea venga subito accantonata, salvo un brevissimo ritorno a inizio terzo atto: per il resto la messinscena procede lungo una solida linea di tradizione, scortata da scene un po’ generiche di Leila Fteita – tranne l’interno della caverna con praticabili a vista sul fondo, visivamente il momento migliore.
Tuttavia è evidente la cura dell’analisi psicologica, così come i dettagli delle controscene con cantanti e coro, tanto che la regia si apprezza soprattutto per il suo valore pedagogico, per come viene gestita sapientemente la macchina teatrale, con un approccio senz’altro didascalico, ma chiaro, spigliato e di vero mestiere. Inoltre non si può negare che la Cavani riesca a posizionare tutti gli accenti che le interessano sull’avidità, il denaro, “la roba” di Alì Babà. Sono piacevoli anche le coreografie di Emanuela Tagliavia, escludendo il goffo ballo dell’anguria finale.
Altra scoperta è l’orchestra dell’Accademia, che Paolo Carignani dirige forse senza trovare quell’unica tinta che avrebbe sottolineato il clima immaginario dell’opera – e dello spettacolo – e con qualche violenza strumentale di troppo nei momenti sinfonici, ma reggendo dignitosamente la ricchezza della partitura, sottolineando i contrappunti, domando i ritmi inusuali, persino scovando tensioni verso un ottocento musicale che verrà – più Saint-Saëns che Wagner. Tra i momenti migliori dell’opera, il prologo con l’aria di Nadir, l’aria di Delia nel terzo atto – senz’altro il più interessante per invenzione e atmosfera – e il coro del trasporto dei sacchi di caffè che apre il secondo atto.
Fotografie © Brescia/Amisano Teatro alla Scala