A vent’anni dalla scomparsa di Alighiero Boetti, la Galleria Stein e la Fondazione Boetti dedicano all’artista una retrospettiva, tra Milano e Pero, nel trambusto dei cantieri dell’EXPO 2015.
Era il 1967. L’Italia intera era attraversata da fermenti in ogni settore della politica e della cultura. Il 19 gennaio si inaugurava, alla Galleria Christian Stein di Torino, la prima personale di Alighiero Boetti (Torino 1940 – Roma 1994), che nel settembre dello stesso anno tornava a presentare alla Galleria Bertesca di Genova un gruppo di opere di forte impatto per la scelta materica e l’impegno concettuale. Tra queste Arte povera – Im spazio: era l’occasione, per Germano Celant, di tracciare per la prima volta le caratteristiche principali del movimento denominato appunto Arte Povera, nato in aperta polemica con l’arte «tradizionale» di cui rifiutava supporti e tecniche, promuovendo il ricorso a materiali cosiddetti ‘poveri’ come ferro, legno, stracci e cemento.
A vent’anni dalla scomparsa di Boetti, la Galleria Stein rievoca la prima storica personale dell’artista, a cui è dedicata un’ampia retrospettiva divisa tra gli spazi espositivi di Milano e Pero. Il boccone del prete si consuma nella piccola sede milanese, dove è raccolta gran parte dei pezzi presentati a Torino nel 1967 e che, con grande sorpresa, non mostrano il minimo segno di invecchiamento. Era già un capolavoro l’invito alla mostra, con incollati al verso campioni di tutti i materiali impiegati: il «tessuto mimetico», i metalli, i «pezzetti di filo elettrico», come nella bacheca di un ferramenta. È messaggio programmatico di un modo rivoluzionario di intendere l’oggetto artistico, il ruolo creativo e ideativo dell’artista, che si riflette poi su tutte le «sculture» e gli oggetti esposti: il Pavimento luminoso, il Mancorrente, i tubi in plastica o in Eternit, tutti del 1966 e in materiali allora ‘innovativi’, pronti a entrare, con una concezione nuova del design ‘moderno e a basso costo’, nelle case di intellettualoidi e borghesi di ogni sorta.
A Pero si dilatano gli spazi e i tempi: in ampie sale e corridoi vanno in scena molte tra le opere più celebri di Boetti, da Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969, alla Mappa in tela del planisfero politico nella versione del 1989-1994, ai pannelli di aerei in volo, lavoro certosino di penna a biro delegato a pazienti amanuensi. Impressionano i 51 quadrati delle Poesie con Sufi Berang (1989), un vortice caleidoscopico di colori con alternate poesie in farsi e lettere dell’alfabeto latino, ricamate su tessuto dai rifugiati afghani di Peshawar (Pakistan).
Codici, profondamente radicati, di due culture che si incontrano con l’apparente leggerezza e la ‘natural sprezzatura’ che contraddistingue tutto il lavoro di Boetti, sempre in limine tra il gioco e il più alto portato intellettuale. Niente di più lontano dal modo di concepire il mondo che si sta mettendo in atto a Pero, poco lontano dalla galleria.
Foto: Alighiero Boetti, San Bernardino (part.), 1966-75. Courtesy Galleria Christian Stein.