Citazioni, inserti di prosa, poesie, grandi discorsi: Hugo, Verdi, Gramsci, uno dopo l’altro. E poi il cinema: uso e abuso di Fellini, da Zampanò a 8½, quindi Chaplin, uccelli hitchcockiani. E basta un attimo perché un concetto diventi slogan. Il tutto a punteggiar le arie delle opere. E i cantanti? Tutti, o quasi, magnifici. Soprattutto Lisette Oropesa, che ci ha fatto rimpiangere la “Lucia di Lammermoor” che avremmo dovuto sentire
“Milan l’è on gran Milan” veniva in mente ieri sera, dando ragione alla von der Leyen, mentre un drone volteggiava dal Duomo alla Scala scortato da Rossini e dal finale del suo Guglielmo Tell, forse il più bello mai composto. Do maggiore quindi, in chiusura di questa “prima” tutta televisiva: lo sapeva persino Bruno Vespa, che forse si sarà ricordato delle vecchie sigle Rai. Ovviamente è stata una “prima” diversa da tutte le altre, interamente registrata, quindi senza pubblico e senza alcuna possibilità di sfilare davanti alle telecamere in prima serata: in sala solo un gruppo di giornalisti a guardare, su uno schermo grande quanto il boccascena, quello che tutti hanno visto da casa in TV.
Locandina con i migliori cantanti possibili, tutti “da Scala” – mancavano solo Anna Netrebko, impegnata a San Pietroburgo, e Jonas Kaufmann, che ha dato forfait all’ultimo – e titolo dantesco benaugurante, A riveder le stelle, a piacere con o senza puntini di sospensione. In pratica un gala, o meglio serata, kermesse, per i più impavidi “evento”, che per tre ore senza pause ha ripercorso di aria in aria un tratto di storia dell’opera, con la guida sapiente di Riccardo Chailly e del regista Davide Livermore, che ha confezionato un prodotto a sua immagine e somiglianza. Ovviamente mancava l’applausometro, ma basta farsi un giro sui social per rendersi conto che l’esperimento della Scala ha funzionato. Ma andiamo con ordine.
Un’inaugurazione della Scala trasformata in concerto Martini & Rossi, o peggio in versione operistica di Sanremo, proprio non si poteva fare. Serviva qualcuno che cucisse le diverse tappe di questo itinerario teatral-musicale da Rossini a Puccini. Qual è stata l’idea di Livermore? Da anni il regista vede giustamente l’opera come il risultato di un dialogo multimediale fra le arti, con cinema, teatro, letteratura, pittura e musica che si potenziano a vicenda per comunicare un messaggio che trascende le singole discipline. Di sette dicembre in sette dicembre, Livermore ci ha mostrato con sempre più entusiasmo – e un filo di frenesia – che l’opera non solo garantisce una visione d’insieme sulla nostra storia e sul nostro presente, ma che può persino salvarci: dai soprusi, dall’indifferenza, da noi stessi.
Se si pensa alla Tosca dello scorso anno, questo messaggio sembrava sfiatare come da una pentola a pressione in ogni momento della messinscena. Quest’anno il format della serata ha permesso, se possibile, di calcare ancora di più la mano. E così citazioni, inserti di prosa, poesie, grandi discorsi: Hugo, Verdi, Gramsci, Pavese, Bergman, persino Bosso, uno dopo l’altro a punteggiare ogni aria senza sosta. E poi ancora il cinema: uso e abuso di Fellini, da Zampanò a 8½, quindi Chaplin, uccelli hitchcockiani, grafiche alla Vertigo senza mai chiedersi troppo sensi e significati. Per non parlare dei tableaux vivants, a volte belli – The Singing Butler di Vettriano per “Regnava nel silenzio” –, altre meno – Delacroix per “La mamma morta” – che si sono aggiunti a questo vortice un po’ bulimico di riferimenti a ogni costo.
Che l’arte unisca, come Livermore in persona ci ha spiegato davanti alla fotografia del concerto di Toscanini del 1946, non c’è alcun dubbio. E nessuno oserebbe dargli torto. Solo che il linguaggio è una faccenda delicata. Basta un attimo perché un concetto si trasformi in slogan, svuotandosi di ogni contenuto, inaridendosi a furia di frasi fatte e demagogiche. “La comunicazione è il nostro deserto”, diceva l’altro giorno Romeo Castellucci in un bell’intervento organizzato dal LAC di Lugano. Detta in altri termini il populismo, anche quando è a fin di bene e si accompagna a un messaggio in cui tutti crediamo, resta populismo. Non è un caso che quella stessa sera del maggio del 1946, Toscanini si sia opposto a qualsiasi discorso istituzionale a inizio concerto, per evitare di aggiungere l’ovvio a quanto ogni spettatore aveva già capito.
E i cantanti? Tutti, o quasi, magnifici. Soprattutto Lisette Oropesa, che ci ha fatto rimpiangere la Lucia di Lammermoor che avremmo dovuto sentire, Marianne Crebassa, magnetica nella “Habanera” con un meraviglioso abito rosso di Armani (a curare i costumi c’era Gianluca Falaschi), Elina Garanča, Eboli sofisticata e altera in “O don fatale”. Spiccano poi “Ella giammai m’amò” cantata da Ildar Abdrazakov con una sensualità che di solito manca a Filippo II, “Pourquoi me réveiller” dal Werther di Messenet del raffinatissimo Benjamin Bernheim, la malinconica “Furtiva lacrima” di Juan Diego Flórez. Sicuri come sempre gli inossidabili verdiani Luca Salsi e Francesco Meli, il cui numero di presenze al sette dicembre è superato solo da Placido Domingo, che fa la sua figura in “Nemico della patria”. L’assenza del pubblico e soprattutto del loggione deve aver spinto a tornare alla Scala Piotr Beczala e Roberto Alagna, il primo elegante ne “La fleur” dalla Carmen, pur con qualche problema di intonazione (invece era sacrificabile “Nessun dorma”, che Beczala ha cantato al posto di Kaufmann), il secondo un po’ al limite in “E lucevan le stelle”, anche se il grande interprete si sente ancora. Quanto agli inserti di prosa, nessuno è risultato particolarmente incisivo. Fuori contesto anche Michela Murgia, che pure non ha detto cose sbagliate.
Dal podio Riccardo Chailly è un narratore generoso, soprattutto nelle arie tratte dai titoli che ha diretto in questi anni: Tosca, Butterfly, Chénier, Don Pasquale, Turandot. Notevoli anche Don Carlo e Rigoletto, di cui individua la tinta fin dalla prima battuta, mentre alle pagine di Un ballo in maschera è mancato un po’ di pathos. Sempre magnifica l’orchestra della Scala, che Chailly dirige cercando un’uniformità impossibile in questo mosaico musicale. Curioso che il direttore abbia scelto di non dirigere i ballabili di Verdi – da I Vespri siciliani, Jérusalem e Il trovatore –, risolti con slancio e scioltezza da Michele Gamba, insieme al passo a due del secondo atto dello Schiaccianoci. A proposito di ballo, non c’è dubbio che il premio per il momento più kitsch della serata sia vinto a mani basse dall’assolo di Roberto Bolle, divenuto uomo vitruviano digitale a tu per tu con un laser in Waves, coreografia di Massimiliano Volpini con musica di Boosta e Satie. Non è un segreto che su Rai 1 ballare con le stelle funzioni sempre (15% di share).
In copertina: Lisette Oropesa
Foto: Brescia/Amisano