Si apre il 6 ottobre con l’ensemble Sentieri Selvaggi che, diretto da Carlo Boccadoro, eseguirà brani di nove compositori scritti durante la pandemia. Paolo Arcà, autore di uno dei brani nonché direttore della Società del Quartetto, ci parla del lavoro del musicista in quarantena
Un Alleluja come canto di speranza per la rinascita, “augurandoci che quest’incubo possa presto dirsi concluso”. Così Paolo Arcà, direttore artistico della Società del Quartetto e compositore, commenta il suo contributo alla serata che inaugurerà la stagione il prossimo 6 ottobre. Non a caso un martedì, per ritrovare un po’ di normalità nel giorno della settimana in cui tradizionalmente il Quartetto apre le porte della Sala Verdi del Conservatorio. Vedremo in quanti potranno accedere e quanto peseranno le norme di sicurezza, al momento l’unica certezza è che l’ensemble Sentieri Selvaggi diretto da Carlo Boccadoro eseguirà brani di nove compositori scritti durante la pandemia, tra cui un nuovo lavoro di Arcà.
Perché un Alleluja?
Questo concerto vuole essere un momento di festa per la vita che ricomincia, per la musica che rinasce, dopo mesi in cui è stata condannata a un doloroso silenzio.
Come è stato comporre nel periodo di isolamento?
Ho vissuto la creatività in maniera intermittente. Mi mettevo a lavorare con molte idee, poi all’improvviso mi bloccavo, come se non potessi più andare avanti. Credo dipenda dal fatto che abbiamo tutti vissuto in una bolla, circondati dalla minaccia incombente di un contagio subdolo e sotterraneo. Ma ho trovato un modo di andare avanti, cercando di fondare la scrittura sull’espressione e su una sorta di volontà comunicativa.
Ha avvertito una contraddizione tra lo slancio della composizione e il silenzio che ci circondava nel periodo di quarantena?
Solo in parte. Sono convinto che scrivere musica sia un atto di ribellione. La creatività è vita, è una scoperta continua, anche di se stessi, per quello che si riesce a tirare fuori. Per questo ho inteso il mio brano e l’intera operazione fortemente voluta dalla presidente Ilaria Borletti Buitoni come un auspicio, quasi come una consacrazione.
Ha sempre vissuto in questo modo la composizione?
In verità l’ho vissuta con una passione sfegatata per il teatro musicale, tanto che dall’85 a oggi ho scritto cinque opere. L’ultima è stata presentata lo scorso anno al Petruzzelli di Bari Ciao Pinocchio, con diciassettemila bambini coinvolti in ventisette recite. La dimensione del canto è sempre stata essenziale per me, non solo nella mia produzione, ma nella mia vita di organizzatore, dato che sono stato direttore artistico di diversi teatri: alla Scala, al Maggio, a Genova, a Parma. In questo concerto ho voluto sottolineare come il canto si possa legare alla rinascita: le due voci soliste di Monica Bacelli e Carmela Remigio incarneranno questa gioia tanto desiderata della vita che riprende. Del resto l’esecuzione di un nuovo brano esprime sempre più vitalità rispetto, che so, a un Te Deum già composto.
Insomma tra comporre opere e organizzarle a teatro, nella sua vita ha avuto sempre a che fare con assembramenti. Quanto è importante la ritualità dell’evento teatrale?
Un concerto o una serata d’opera creano un circolo virtuoso: un rimbalzo di emozioni dal palcoscenico al pubblico e viceversa. Nel pubblico queste emozioni vengono vissute non solo in modo solitario, ma anche in modo collettivo, perché chiunque percepisce anche altro quando è circondato da un migliaio di persone. Nella mia carriera ho avuto rapporti con molti direttori d’orchestra straordinari che mi hanno sempre raccontato come dal podio riuscissero a sentire il pubblico. Avere un pubblico di ghiaccio o caloroso può condizionare enormemente il risultato artistico di una recita.
Quindi quello che conta è la relazione umana?
La cosa sconvolgente di questo periodo è proprio il fatto che si sono interrotti i rapporti. Io insegno composizione al Conservatorio di Milano, quindi in questo periodo ho fatto decine di videolezioni, ma non è come essere davanti a un pianoforte con l’allievo, quando puoi suonare un accordo e far sentire immediatamente un cambiamento melodico o armonico. Per tornare al problema della ritualità, è l’emozione il principio della musica dal vivo.
Come a dire che la tecnologia ci sta aiutando a lavorare ma non può sostituirsi completamente?
Non c’è dubbio. E mi viene in mente anche un altro aspetto: l’ascolto virtuale è sempre frammentario. È difficile mettersi ad ascoltare su un supporto la nona di Beethoven dall’inizio alla fine. Di solito si ascoltano pillole, brandelli di musica per alcuni minuti, poi si spegne. In questo periodo mi sono divertito a confrontare esecuzioni della stessa composizione su YouTube, magari il do di petto di due diversi tenori, ma è un ascolto tecnico. Per me l’ascolto dal vivo è una specie di droga, un supporto fondamentale della mia vita dopo trent’anni che sono sulla breccia, con una spiccata predilezione per il canto e per la musica pura, da camera.
Qual è la differenza?
Si tratta di sfumature diverse. Sono ambiti in cui la bellezza si articola in modo differente. Nel teatro musicale prevale la dimensione esteriore della spettacolarità, perché unisce insieme il canto, la recitazione, il coro, l’orchestra, le scene, i costumi, le luci: la magia di tutti questi elementi che si combinano insieme. Invece in un concerto da camera si viaggia in un’altra dimensione: ci si distacca dalla poltrona per collocarsi nel mondo dell’ineffabile. La musica pura non esprime parole come fa il canto, ma un colore, un brivido, un abbandono.
Da direttore artistico, che tipo di rinascita auspicherebbe dopo questo periodo di chiusura?
Spero in una rinascita più coraggiosa e creativa, con la volontà non di percorrere i soliti binari battuti del grande repertorio. Bisogna seguire la curiosità.
Prima della chiusura percepiva il rischio di una routine nella programmazione delle istituzioni musicali?
Il problema è che privilegiavano operazioni popolari per acquisire un numero maggiore di spettatori. È chiaro che se programmo La traviata posso fare più di dieci recite con il teatro esaurito. Se invece programmo un’opera che è fuori dal repertorio posso essere sicuro che la sala sarà mezza vuota. In questi anni c’è stata una rincorsa al quantitativo. Mi auguro che l’orrenda pandemia che ci ha coinvolto possa ridestare in tutti un po’ di curiosità, sia negli organizzatori sia nel pubblico.
Ma è un’aspirazione sostenibile, considerando che sono proprio i numeri a condizionare i finanziamenti?
Esprimevo infatti un auspicio, una speranza, un desiderio: qualche volta è bello sognare. So perfettamente che le logiche saranno altre.