Grandi e drammatici eventi di fine Novecento vengono affrontati in due film, per motivi diversi particolari e disturbanti: Zrinko Ogresta in “Dall’altra parte” immagina, ma sulla probabile base di episodi realmente accaduti, come il conflitto tra serbi e croati possa riesplodere anche oggi nella forma di una trama psicologica lenta, sottile e spietata; Nick Hamm, forse con qualche licenza storica di troppo, ricostruisce in “Il viaggio” la storica pace dell’Ulster nell’incontro, in parte casuale, tra due leader che all’inizio si odiano e alla fine in qualche modo si capiscono, almeno sul piano umano
Uno spettro si aggira per l’Europa: quello del film-verità, intimista e sofferto, mortalmente statico, prevalentemente silenzioso e rigorosamente low budget. Niente di nuovo, per la verità, men che meno nella storia del cinema del nostro paese. Eppure, da un punto cardinale all’altro del nostro continente, questa new wave realista fuori tempo massimo miete ancora oggi periodicamente vittime tra gli spettatori meno inclini alla pazienza (o all’insonnia).
Dall’altra parte, del croato Zrinko Ogresta (membro dell’Accademia Europea del Cinema fondata da Ingmar Bergman), è un film crudo, lento e freddo. È una storia ricamata punto per punto con delicatezza e pazienza, la stessa pazienza richiesta in dosi massicce al proprio pubblico per superare momenti di silenzio, spazi chiusi e sguardi intensi che paiono non finire mai. Candidato per la Croazia agli Oscar come miglior film straniero e osannato a suon di premi in patria e dintorni (al punto da alimentare maligne congetture su una concorrenza evidentemente non proprio spietata) di fatto basa le proprie fortune, come tanti altri esemplari della stessa specie, sul sottile gioco di sfumature del suo interprete principale: l’ottima Ksenija Marinkovic, incredibilmente espressiva nonostante una recitazione apparentemente granitica, una maschera più che un volto, indagata (spiata?) da ogni possibile inquadratura e angolazione, unico perno di un mondo che gira, seppur molto piano, intorno a un’esistenza destinata a sgretolarsi un pezzo alla volta senza che di fatto succeda praticamente nulla. Non stupisce allora lo stile claustrofobico, gelido e semplice della pellicola: zero movimenti di macchina, niente musica, e poche, lapidarie battute alternate a pause interminabili.
Dall’altra parte è un racconto breve che non ha alcun interesse se non quello di arrivare dritto al punto, a metà tra un fotoromanzo over 60 e un colpo secco portato, cinematograficamente parlando, con una mano sola. A incuriosire maggiormente, più che la vicenda in sé o il gusto per l’immagine, è infatti il sottotesto storico e politico post-bellico nell’ex Jugoslavia: mai raccontato esplicitamente ma quasi sussurrato con paura, è l’assurdo rumore di fondo che lega e ostacola ogni possibile ritorno a una vita normale, come una ferita nascosta e tutt’altro che rimarginata, accantonata in fretta perché “la guerra è guerra” e non parliamone più.
E Dall’altra parte è proprio questo: la storia di un passato che ritorna, velenoso e strisciante, quanto più si cerca di dimenticarlo o nasconderlo. È la storia di Vesna, oggi infermiera a domicilio e un tempo moglie del criminale di guerra Zarko (il serbo Lazar Ristovski, l’altro protagonista della pellicola, già visto in film sul tema come Underground o La polveriera), fuggita a Zagabria per crescere da sola i figli e ricominciare da zero. Ma quando Zarko, vent’anni dopo la loro ultima conversazione, torna a contattarla, il castello di carte faticosamente costruito per mascherare le atrocità vissute (e causate) in gioventù dalla sua famiglia comincia a crollare. E non è che l’inizio.
Non ingannino le dichiarazioni di Ogresta, premiato in passato sia al Festival del cinema di Roma che a quello di Milano: la sua ultima opera non è un film sul perdono, né tantomeno sul riuscire a ricucire le macerie di un conflitto senza più morti né feriti. È invece il ritratto semplice e vagamente inquietante di una modernità vuota perché a conti fatti fittizia, e l’amara constatazione dell’impossibilità di cancellare impronte tanto profonde da divenire un marchio indelebile d’odio strisciante, rancore e diffidenza, anche per le generazioni future.
due vecchi nemici “risolvono” il caso irlanda
Esistono film che con delfico tempismo riescono a proporre situazioni che, se lo spettatore potrebbe pensare esser frutto dell’immaginazione di un registra contropelo e visionario, la storia conferma aver valore quasi oracolare (torna in mente il nostrano Habemus Papam). Esistono poi film – che per il momento ci si limiterà a graziare della generosa definizione di “storici” – che vogliono, con una licenziosità che diviene a tratti oltraggiosa, narrare un evento storico e, nel farlo, il caso vuole che siano anch’essi imprevedibilmente puntuali. È il caso di The Journey di Nick Hamm, presentato alla scorsa edizione della Mostra di Venezia, che si propone di ricostruire forse l’unico momento della vita di Martin McGuinnes e del reverendo Ian Peisley che sarebbe politically correct voler relegare all’oblio, ovvero il viaggio che portò alla definizione della pace di St. Andrews nel 2006.
La macabra puntualità del film è data dalla morte, lo scorso 21 marzo, di McGuinnes (interpretato nel film da Colm Meaney), presunto ex capo di Stato Maggiore dell’I.R.A., nonché leader del suo braccio politico, lo Sinn Féin. Suo acerrimo nemico è il reverendo Paisley (Timothy Spall), mangiapapa co-fondatore della Chiesa Presbiterana dell’Ulster. Incuranti del monito del dividi et impera, a causa di una serie di sfortunati ma propizi eventi i due si trovano a condividere un’ora di viaggio, stretti nell’angusto abitacolo di un van all’aeroporto di Edimburgo.
Si diceva che è difficile voler definire questo dramma “storico”, non tanto per la dichiarata licenziosità dello sviluppo dell’incontro, quanto per il tono scelto da Hamm nella sua presentazione. E qui sta l’errore del regista: non prendere sul serio né la Storia né la storia che ha deciso di raccontare. I due, che paiono usciti dal Museo delle Cere, sono fissi e stilizzati, incatenati ad una serie di tic che finiscono per far sorridere. A cominciare dalla prima inquadratura di Ian Paisley con la Bibbia in mano, per sfociare nel fare sornione e spensierato della sua controparte politica, questo ping pong che da sticomitia – monologo parallelo e alternato tra due personaggi – si fa dialogo tra due vecchi amici al bar, finisce per abbracciare il surreale più che il verosimile.
I bisticci e battibecchi fra i due, la cui indubbia statura politica è qui ridotta a un ancoraggio a feticismi ideali, sono simili a quelli di due conoscenti di lunga data che cercano di ammorbidire antichi dissapori con una gita fuori porta. Il regista sceglie poi un vero e unico protagonista, Paisley, di cui MccGuinnes si limita ad essere la spalla più che l’interlocutore, nonostante l’eccesso di luci sulla figura del reverendo abbia il solo scopo di accecare lo spettatore con le sue ridicolaggini: dalla convinzione che l’Unione Europea sia in verità la sede di un complotto papale, al fatto che la poltrona numero 666 del Parlamento britannico venga riservata all’Anticristo. Così McGuinnes ne esce pressoché santificato, mosso da un intento di pace – che sfocerà poi nel Belfast Agreement e nell’Accordo del Venerdì Santo – cui Pasley si mostra ostile, arroccato in un castello di convinzioni vecchie, per sua stessa ammissione, come il Titanic.
A muovere i fili del tutto è poi l’autista (Freddie Highmore), in realtà agente dell’MI5, diretto nel film da John Hurt, che goffamente tenta di spingerli al dialogo fingendosi ignaro delle loro identità, con allusioni cinematografiche (come Samuel L. Jackson, che non può non ricordarci l’altrettanto spiacevole viaggio in carrozza di The Hateful Eight), incidenti posticci e implacabili curiosità.
Così, a conti fatti finisce per essere un po’ fastidioso che decenni di Storia vengano relegati alla sola carrellata di immagini di repertorio che accompagna i titoli di coda del film; anche il più digiuno della questione nord-irlandese si renderà conto che qualcosa non quadra. E a poco serve citare il Bloody Sunday o la strage di Enniskillen, se l’intento dichiarato è quello di minimizzare in toto decenni di guerra e terminare il racconto ricordandoci che dopo un magico viaggio in macchina Cip e Ciop si facevano chiamare Chuckle Brothers
Il viaggio, di Nick Hamm, con Timothy Spall, Colm Meaney, Freddie Highmore, John Hurt