In Triennale la mostra dedicata alla collezione di Donata Pizzi: fotografe italiane in un arco temporale che va dal 1965 al 2015. Ognuna con il proprio punto di vista sul mondo e in forte rapporto con se stessa, spianando, si spera, la strada alle altre
“Per tutta la mia vita ho fotografato solo per capire, gli altri e me stessa”. In questa frase di Lisetta Carmi, e soprattutto in quell’inciso che unisce “gli altri” a “me stessa”, si può trovare il filo della mostra, L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015 curata da Raffaella Perna, che alla Triennale espone alcune delle opere che Donata Pizzi raccoglie dal 2015 nella collezione d/DO. Fotografie realizzate da donne italiane tra il 1965 e il 2015 e raccolte da una fotografa come gesto di resistenza e sopravvivenza, per dare spazio ad una ricchezza spesso disconosciuta. È ancora valida, infatti, anche in campo fotografico, la provocazione delle Guerrilla Girls, per le quali una donna, per essere esposta in un museo, non può che essere nuda e mai artista.
E invece in questa mostra troviamo solo fotografe, che danno vita alle opere più diverse, affrontando temi diversi con stili diversi, scardinando l’idea che ci sia una uniformità femminile immediatamente riconoscibile. Percorrere le diverse sale della mostra, risalendo i decenni, permette di svelare come la presunta differenza femminile non nasca da un filtro naturale che orienta lo sguardo delle donne, ma da un loro essere radicate nell’esperienza, in un percorso che le ha portate alla fotografia lungo strade spesso più tortuose rispetto agli uomini. Un radicamento situato che emerge fin dalla prima sala, in cui le fotografe si svelano nei 30 video del progetto “Parlando con voi”: ognuna si racconta e racconta il suo lavoro negli spazi intimi della propria casa, legando in maniera forte la propria identità pubblica espressa dalle opere a quella privata della narrazione di sé.
Ed è in uno di questi video che Lisetta Carmi, la pioniera della mostra (sia per età che perché sua è la prima foto acquistata da Donata Pizzi), ci dice, con la chiarezza della sintesi, che la sua fotografia è stata comprensione di sé e degli altri, in uno scambio costante tra l’interno e l’esterno. Uno sguardo, quindi, che mostra il proprio punto di vista anche quando racconta temi sociali e politici e che è in grado di comunicare in maniera pubblica il rapporto con se stesse. Ed è questo filo che lega i manicomi di Carla Cerati e le ragazze di Prima Linea in gabbia di Giovanna Borgese con i ritratti o i paesaggi che caratterizzano Marina Ballo Charmet o Elena Givone (per citare solo alcune tra le artiste in mostra). Un gesto fotografico che nasce dall’urgenza di raccontare il mondo raccontando se stesse e viceversa, consapevoli, grazie alla propria esperienza parziale di donne in un universo maschile, che non esiste uno sguardo neutro e neutrale.
In questo senso il femminismo, con la sua capacità di mostrare il personale del politico, rimane sottotraccia in tutta la mostra, ben oltre la sala dedicata al movimento femminista. Il femminismo diventa una molla, un trampolino che permette di immaginarsi in maniera diversa e di dare spazio al proprio sguardo. Un rapporto vividamente espresso dall’opera di Paola Mattioli intitolata “Cosa ne pensi del movimento femminista”: un piccolo specchio in una scatola tonda riflette immagini di donne in corteo. Oltre all’immediato riferimento allo specchio come strumento femminista, questa scatola racconta proprio del legame tra privato e pubblico, intimo e politico, di uno specchiarsi che riflette il mondo. Lo stesso rapporto che emerge nelle partecipazioni e nelle foto di matrimonio tra Tomaso Binga e Bianca Menna. Tomaso Binga, infatti, non è altro che lo pseudonimo con cui la fotografa e poetessa Bianca Menna ha voluto mostrare la misoginia del mondo dell’arte e della cultura. Viene presentato pubblicamente, quindi, un matrimonio con se stessa che è, allo stesso tempo, una denuncia sociale e una storia intima.
Uno sguardo, quello di questa mostra, che incarna e svela la dimensione paradossale della fotografia, che racconta storie isolandone un frammento statico e che rende possibile l’esperienza di vedere con gli occhi di un’altra. Un paradosso che emerge nelle parole che Gianni Berengo Gardin usa per descrivere Paola Agosti – “il più fragile carrarmato che conosca” – che sembrano quasi ritrovarsi nel lavoro di Rä di Martino – “Authentic News of Invisible Things” – che ritrae i dummy tanks, i carrarmati finti creati dai reparti di camouflage a partire dalla Prima Guerra Mondiale per ingannare i nemici. Percorrere le sale della mostra è come seguire le tracce di questi fragili carrarmati, che spianano la strade ad altre donne e mostrano le operazioni di camouflage di chi pretende sguardi neutri sul mondo, e su di sé.
Immagine di copertina: Allegra Martin, Doublebind 03, 2014