Un po’ opera buffa un po’ tragedia, il ritorno in scena dello storico Amadeus funziona meglio nella seconda veste, grazie a una compagnia ormai di sicuro affidamento
C’è bisogno di trovare un codice, per leggere Amadeus, ovvero il ritorno in scena, al Teatro Elfo Puccini, del testo teatrale del 1978 da cui è tratto l’omonimo celeberrimo film e da cui nasce la leggenda di Salieri assassino di Mozart consumato dall’invidia per il giovane prodigio. È inevitabile ma meno banale di quanto si potrebbe pensare scegliere quello dell’opera. Nelle due ore e mezzo sulla scena si sintetizzano infatti almeno due libretti. Se il primo tempo ha tutte le caratteristiche dell’opera buffa, dopo la chiusura del sipario arriva in scena la più classica delle tragedie che chiude e restituisce il suo significato e la solidità drammaturgica a un testo che si era aperto su un Salieri anziano dai tratti più vicini allo Scrooge di Dickens, un intenso Ferdinando Bruni, cui basta togliere un ampio cappotto, e accomodare con un gesto il ciuffo di capelli, con l’aiuto di due solerti servi di scena, per perdere o guadagnare in una frazione di secondo un’intera vita di disprezzo nutrito di ammirazione per il giovane che Dio ha scelto come strumento della musica.
Si potrebbe del resto cercare di leggere la fitta trama di rimandi e citazioni ad opere di Mozart che intessono il testo e che spiegano, a saperle cogliere, un gioco grottesco e surreale avvitato da un giovane ridicolo e sboccatissimo interpretato da un efficacemente detestabile Daniele Fedeli nei panni di un Mozart ragazzino interessato soltanto a rincorrere le proprie pulsioni, e che attraverso di esse finisce per portare in scena per primo la realtà che le nutre. Non è tuttavia un caso se soprattutto di questo primo atto a sorprendere sono soprattutto gli sfarzosi e originali costumi di Antonio Marras, pieni talvolta di lazzi e di sbuffi che vogliono dichiaratamente evocare la ruota pomposità della corte di Giuseppe II, e talaltra di borchie di pelli ad evocare una giovinezza dirompente che arriva qui come la novità pronta a disinnescare ogni struttura; e finendo, un po’ come il Dylan interpretato da Timothée Chalamet sfumare il confine fra innovazione e egomania, trasformando le voci mosse (o rese miopi?) dalla certezza di avere qualcosa da dire in stanchi e derelitti passatisti. È davvero così? È davvero tanto mostruoso colui che scopre la propria abnegazione capace solo di banalizzare la meraviglia di fronte a chi sa tra rendere meraviglioso il banale con il solo ausilio di un talento che non fa niente altro che bastare a se stesso?
Tra le consorterie e gli equilibri di potere di una corte in sfacelo, moglie svagate e difensori di casta, nel secondo tempo che questo lavoro trova la forza che che nel gioco insistito dal primo va sfilacciandosi in una ostinata e boccaccesca a coazione a ripetere di scherzi e corse nello stretto di una continua messa in scena di fronte a orecchie nascoste nel buio di un anfratto, o in quello da cui gli spiriti del futuro trarranno la convinzione di aver conosciuto l’antico rapporto fra i due compositori, maestro di corte e la sua tradizione italiana e la vividezza piena di giudizio del ragazzo tedesco. Nonostante il talento dei nove interpreti di scena tra cui spiccano alcuni dei membri più apprezzati e talentuosi della compagnia dell’Elfo, da Luca Toracca a Umberto Petranca, grottesco Imperatore, fino al Conte massone di Matteo de Mojana e ai due fantastici venticelli di Alessandro Lussana e Riccardo Buffonini. Tra tutti loro giganteggiare opportunamente il Salieri di Ferdinando Bruni che, pur scegliendo filologicamente per sé il ruolo anche il ruolo del narratore, che talvolta ne limita le possibilità sceniche, offre al compositore italiano tutta la complessità di un sentimento in cui odio è amore si confondono, in cui la vendetta contro la sorte, il dio delle promesse mancate, vede in Amadeus e nel desiderio della sua distruzione soltanto uno strumento di una vendetta più grande.
Salieri si sa condannato all’oblio, e prova forse, in fondo, una qualche forma di ambigua pietà per la vittima delle macchinazioni sue e di un mondo in fondo innalza e distrugge i suoi idoli con rapidità, nutrita soltanto dalle malizie di voci di cui fidarsi soltanto quando ci fa comodo. Nella morte in solitudine del giovane genio abbandonato dal padre Pigmallione e carceriere, si specchia forse quella del nemico giurato, capace di combattere la propria disperata solitudine solamente preferendo consegnarsi al mondo nella peggiore delle versioni possibili, piuttosto che cedere al silenzio dell’olio. Trovano così la statura degli Eroi lirici che meglio si attaglia ad entrambi. La messa in scena di Bruni e Frongia sceglie una restituzione assolutamente fedele del testo originale, che forse avrebbe ancora più giovato di correre il rischio di concedere un’ asciugatura, e che tuttavia consente di mettersi in mostra tanto ad artisti già amati quanto a giovani di sicuro avvenire – oltre allo stesso Fedeli, Valeria Andreanó nei panni della giovane Costanza, moglie di Mozart.
La classicità della messa in scena fa da contraltare alla verità anche disturbante che è lo stesso elemento attraverso cui Mozart si consente di restare nel tempo, laddove invece l’accademismo classicheggiante di Salieri, idolatrato dai suoi contemporanei, ha finito nel tempo con l’andare scomparendo. È forse l’Antico dilemma tra dedizione e talento, tra la volontà di votare se stessi a un sogno fino all’autodistruzione e alla mostrificazione e la dote naturale, tanto strabordante da non aver bisogno neppure di essere educata, e che finisce per sua natura per diventare tale consapevolezza di sé che non concepisce alternative. Ma il faticoso dialogo tra Amadeus e la corte porta in scena anche la discrasia tra sincerità senza filtri e ipocrisia istituzionale, e allo stesso tempo tra necessità di civile coesistenza e un’assenza di misura che si potrebbe – se ci si perdona la semplificazione – assimilare a un funzionamento autistico che rievoca la parte (all’interno dello spettacolo teatrale tratto da Il cane ucciso a mezzanotte) che ha fatto amare il giovane Fedeli agli spettatori dell’Elfo. Cosa è opportuno e cosa non lo è, cosa merita devozione e cosa stanco oblio, che cosa riprovazione e che cosa forse compassione? Nell’enfasi di’ una storia che emerge dal tempo dei gesti calcati per la scena, arrivano mdomande ancora ambigue e presenti. Pronte ad affascinare per l’architettura e a stupire per l’umanità che questa sa nasconde, proprio come nelle grandi opere.