Grazie all’aiuto del suo personalissimo Gesù, Nothomb tratta, con ironia, saggezza e una lingua sempre originale, uno fra i dilemmi più insidiosi della storia dell’uomo: l’eterno conflitto fra corpo e spirito.
Il ventottesimo romanzo della scrittrice Fabienne Claire Nothomb, nota con il nome d’arte di Amélie Nothomb, si intitola Sete ed è un elogio alle infinite possibilità del corpo. Viene pubblicato in lingua francese nell’agosto del 2019 e si posiziona secondo al Premio Goncourt dello stesso anno. Dopo aver conquistato Francia e Belgio, viene tradotto da Isabella Mattazzi e pubblicato in Italia nel febbraio 2020 dalla casa editrice Voland che, ogni anno, dal 1997 in avanti, si occupa della pubblicazione dei libri dell’autrice belga.
Conosciuta e amata a livello internazionale, soprattutto per le sue adorabili stranezze, Amélie Nothomb ha una personalità tutt’altro che ordinaria. Figlia di un diplomatico belga, nasce a Kobe in Giappone e trascorre infanzia e adolescenza fra Asia e America, prima di ritornare stabilmente a Bruxelles con la famiglia, all’età di diciassette anni. Oltre alla sua affascinante biografia, di cui è particolarmente noto l’amore per la terra nipponica, in cui sono ambientati alcuni dei suoi romanzi più belli, è famosa per i cappelli giganti e i completi total black che indossa, le sue abitudini bizzarre, che non esita a rendere pubbliche, e, sopra ogni cosa, per la totalizzante vocazione alla scrittura.
Con il supporto di grandi tazze di caffè nero, Amélie Nothomb scrive a mano per quattro ore ogni giorno, dalle 4 alle 8 di mattina. Dal 1992, in cui pubblica il suo primo romanzo, Igiene dell’assassino, ogni anno, con sorprendente regolarità, è pronta a “partorire” un nuovo libro, così come lei stessa ha definito più volte l’atto conclusivo della sua gestazione letteraria.
L’eloquente semplicità che li caratterizza ha fatto sì che i titoli dei suoi romanzi entrassero nella storia; quest’ultimo, Sete, non fa certo eccezione. La sete, come bisogno fondamentale, e l’atto di bere, come appagamento massimo raggiunto dall’uomo, servono ad Amélie Nothomb per dare vita a una riflessione sull’umano che vede protagonista proprio Gesù di Nazareth, la cui storia ha segnato le sorti del mondo intero.
Dopo il processo e il giudizio di Pilato, Gesù, rinchiuso in prigione per l’ultima notte che precede la pubblica crocifissione, racconta in prima persona lo strazio per la fine della sua vita sulla Terra. “Ho sempre saputo che mi avrebbero condannato a morte.”, esordisce Gesù. Di fronte alla morte incombente, il pensiero dell’eterna vita spirituale che lo attende non è di conforto. Gesù è sconvolto per l’abbandono del proprio corpo di uomo, offertogli in dono e, così violentemente, strappatogli dal padre, Dio. Come rivela l’uso ridonante del verbo “provare”, nella sua ultima notte, Gesù rivolge il pensiero alle gioie della vita materica, al piacere della tattilità che gli hanno concesso di sentirsi appagato dalla relazione carnale con l’amata Maria Maddalena e dalla vicinanza fraterna con gli apostoli.
Il giorno seguente, agonizzante sulla croce, per combattere il lacerante dolore che i chiodi procurano al suo corpo, Gesù Cristo si appella alla sete, coltivata durante la reclusione e la sfiancante ascesa alla collina del Golgota, con la richiesta, in seguito accolta, di ricevere un ultimo sorso d’acqua:
“In verità vi dico: ciò che sentite quando state morendo di sete, coltivatelo. Lo slancio mistico non è che questo. E non è una metafora […] L’istante ineffabile in cui l’assetato porta alle labbra un bicchiere d’acqua è Dio.”
La sete, dunque, diventa emblema dell’amore che questo nuovo Gesù, fragile e umano, uscito dalla penna di Amélie Nothomb, prova per la sua vita terrena, che gli è stata concessa con l’incarnazione.
Nel suo complesso, si potrebbe considerare un semplice elogio della corporeità, che è, per altro, fra gli spunti di riflessione più interessanti sollevati dai romanzi di Nothomb, ma non è tutto qui. Sete non è solo un’apologia dei sensi, del piacere e del godimento, il disperato inno alla vita umana di un condannato a morte che, per caso, è il figlio di Dio.
In un prodigioso paradosso, con le sue ultime parole, il Gesù di Amélie Nothomb ribalta la scala gerarchica in cui spirito e corpo sono tradizionalmente collocati, proprio in conseguenza dell’estremo sacrifico compiuto dal Cristo in croce. Logorato dalla magnitudine del fraintendimento che, con la sua morte, influenzerà l’umanità intera nel prestare valore al solo spirito, nei secoli dei secoli, afferma: “Una sfilza di uomini sceglierà il martirio a causa del mio esempio imbecille”. In pieno contrasto con la narrazione evangelica, Gesù qui si interroga sul sacrifico della crocifissione che considera nella sua tremenda inutilità.
Nemmeno davanti alla morte, Gesù invidia la potenza di Dio. Più che mai consapevole e fiero della sua libertà di essere umano, che ha vissuto come tale insieme ai suoi pari per trentatré lunghi anni, egli stabilisce la vittoria del provare sul comprendere, della pratica sull’astrazione, del corpo sullo spirito:
“Morire è meglio della morte, così come amare è molto meglio dell’amore. La grande differenza tra me e mio padre, è che lui è amore e io amo.”
Sete di Amélie Nothomb, si colloca accanto alle reinterpretazioni moderne di alcuni autori straordinari del Novecento, come Il maestro e Margherita di Bulgakov, in cui Gesù diventa Yesua seguito dal suo apostolo solitario Levi Matteo, e La gloria di Berto, in cui un Giuda tradito e innamorato prende parola in prima persona.
Grazie all’aiuto del suo personalissimo Gesù, Nothomb tratta, con ironia, saggezza e una lingua sempre originale, uno fra i dilemmi più insidiosi della storia dell’uomo: l’eterno conflitto fra corpo e spirito. Ne nasce un romanzo che, nella sua eccezionale brevità, esprime una visione potente e trasgressiva della Passione di Gesù Cristo, vicenda centrale della narrazione più famosa di tutta letteratura occidentale: i Vangeli.