Estate 2020, Stati Uniti: tra emergenze sanitarie, violenti dibattiti politico-sociali e ordinanze di contenimento a singhiozzo c’è modo di osservare le profonde trasformazioni impresse dai tempi in sella a una bicicletta. Le dinamiche urbane sono fotogrammi in cui la semplicità di una cosa antica come la bici consente punti di vista alternativi. Un viaggio in tre puntate – dopo Los Angeles oggi la seconda a New York – per le strade, gli scenari, la vita e le persone di tre città americane compiuto durante la pandemia e proposto nel momento in cui negli Stati Uniti tanto è cambiato, c’è una nuova amministrazione e si comincia a ragionare di vita, città ed economia post Covid19
New York City, primavera 2021, prologo: le strade e i luoghi percorsi pedalando durante l’estate 2020 sono gli stessi che percorro in questa primavera, così come la mia bicicletta è rimasta la medesima. In questo lasso di tempo, tuttavia, molteplici elementi di contesto appaiono in rapida evoluzione. Gli Stati Uniti hanno una nuova Amministrazione e un nuovo Presidente. L’efficacia dei vaccini messi a disposizione, qui prima che altrove, consente di intervenire sull’emergenza sanitaria alleggerendo la pressione delle politiche di contenimento. Green Economy, lotta al riscaldamento globale e intervento sul razzismo sistemico sono oggi parte dell’agenda politica. Anche se le ferite sociali e le trasformazioni urbane appaiono evidenti negli immobili ad uso commerciale vuoti, nei ristoranti e negozi che hanno cessato le attività, nelle famiglie che ancora affrontano lutti, negli Stati Uniti si comincia a ragionare di vita, città, ed economia post Covid19.
Mentre il volume del traffico a Los Angeles, New York e San Francisco progressivamente aumenta, realizzo quanto l’estate 2020 sia stato un momento eccezionale per osservare gli eventi “a colpi di pedale”. E dopo Los Angeles (da leggere qui ) oggi New York.
New York City (NYC). Ha appena smesso di piovere dopo uno scroscio torrenziale estivo. Pomeriggio inoltrato, caldo e umidità terrificanti. Acquitrini maleodoranti a bordo strada si scaldano ed evaporano rapidamente mentre da un ristorante asiatico esce una zaffata di spezie. Anche se la vita, nell’ultimo anno, ha reso Alphabet City nell’East Village profondamente familiari, questo è il primo tempo a NYC con la mia bicicletta. Armato di spocchia californiana per le salite e gli scenari abituali nella Costa Ovest, ho un piano serrato di esplorazioni e contatti con la comunità ciclistica locale. Smaltita la quarantena imposta dal Governatore Cuomo a chi proviene da Stati in cui Covid picchia duro, parto per la prima sgambata lungo il periplo di Manhattan per raggiungere il Central Park.
Tutto a NYC è volto ad impressionare, primeggiare, concupire. La gente fuma quasi come in Europa. Tre ragazze sedute al bar all’angolo inseguono Sex and the City. Tizi abbaiano sulla soglia di un negozio, mentre umanità improbabile sghignazza divertita seduta sui gradini di casa. Capto il cuore del diverbio: “Fuck you!”. Raggiungo la ciclabile che si snoda tutt’attorno a Manhattan attraversando gli isolati di edilizia protetta per popolazioni a basso reddito. Molteplici forme di proto-socialismo di questo tipo preservano le differenze culturali, di censo, di provenienza. Probabilmente uno dei motori di quel caos umano, imprevedibile e potente, che fa della città un’icona.
La ciclabile è un toboga sconnesso. Nulla mi ricorda i modi rispettosi e compassati della mia città, San Francisco. Pedalare a NYC è una metafora hobbesiana, una guerra per lo spazio. Capisco immediatamente che debbo ricorrere a modalità assorbite in Italia atrofizzate degli anni di California. A NYC pedali in plotoni di sgangherate bici elettriche che alimentano il nuovo fiorente mercato post-Covid: le consegne a domicilio. Facce esauste per le ore trascorse in sella sfrecciano ogni dove. Non esiste superficie urbana che non utilizzino. Il modo migliore per conviverci è incollarcisi in scia sperando che il centauro non stia consultando l’App che governa le oscure meccaniche del delivery.
A NYC pedali in nugoli di biciclette elettriche a noleggio; una sorta di Giro d’Italia cyberpunk. Sensibilmente più lente di quelle dei fattorini, sono spinte però da newyorkesi il cui sistema è dominato da un messaggio primordiale: primeggiare per sopravvivere, o sopravvivere per primeggiare. Superate numerose biciclette di tal tipo, non si è al riparo. Al primo semaforo, ecco che sopraggiungono, spingono per infilarsi ed essere primi alla ripartenza (nei rari casi in cui i semafori sono rispettati). A NYC, il ciclismo mi appare rispondere alle due regole auree del traffico italiano: preservare la cinetica e riempire gli spazi vuoti. Il primo impatto è brutale: “Get me out of here!”
Lo skyline di downtown Manhattan in bicicletta è mozzafiato, una specie di Mortirolo urbano. Pedali e avverti forme incombenti e maestose. Se eviti buche, rattoppi e cantieri riesci a goderti i fotogrammi visti mille volte nei film. In tempi pandemici, poi, riesci a godere passaggi ciclistici probabilmente impensabili nella storia di NYC. Uno di questi è senz’altro il rientro a casa dopo un allenamento al Central Park lungo 8th Avenue. La strada è in leggera discesa verso downtown. Normalmente murata di traffico, le restrizioni sanitarie la rendono vuota, aperta. Quattro corsie di pura velocità. Con le luci magiche dell’imbrunire estivo, incastri gli occhiali da sole nel casco e ti godi il blu che precede il tramonto. In un attivo piombi in Times Square e sei sopraffatto dallo scenario digitale degli immensi schermi che piastrellano gli edifici. Invaso da improvvisa luce, colori, immagini, parole, pensi al privilegio del movimento senza consumo di idrocarburi. Si sa, il cervello compara in permanenza. Penso allora ai boschi e agli scorci in cima alle salite delle montagne californiane. Sarò di ritorno il mese prossimo a godermi profumi e colori del Golden State. Per ora mi godo le foreste create dall’uomo.
In sella sei solo, ma il ciclismo è sport di comunità. Con facilità, sfruttando amici locali, entri in contatto con la cycling-tribe di NYC. Pedalare in gruppo è bello, così come conoscere persone, storie e percorsi. Il plotone che mi ospita è composto da umani in cui mi riconosco. Sono europei che hanno scelto gli States per vita e lavoro. Sembra una barzelletta: c’è una tedesca, un’austriaca, un francese, un inglese. Sabato mattina 6:00 am., appuntamento al Central Park per dirigere verso lato occidentale di Harlem, attraversare il Washington Bridge e puntare a nord lungo il fiume Hudson. Si pedala velocissimi in pace-line seguendo l’Interstate 9W. Il percorso non è impegnativo per salite. Il caldo umido dell’estate insostenibile. Verde rigoglioso, cottages, angoli di bellezza naturale inattesi.
Il gruppo pedala e discute. La sensibilità europea commenta lo svuotarsi repentino della metropoli, il deserto pandemico del Financial District o di Midtown spinto dal lavoro remoto, l’aura di NYC recisa alla radice con la chiusura di ristoranti, bar, gallerie d’arte, teatri. Privata dell’anima, la città appare un sarcofago di cemento. “Ritornisti” e “definitivisti” sostengono opposte previsioni del futuro. Se il crollo degli affitti può nascondere presupposti di rinascita, città come NYC stanno pagando un prezzo pandemico altissimo, non solo in termini di vite umane.
Lungo la strada, alcuni tradizionali punti di ristoro per ciclisti riflettono il melting-pot iconico di NYC. I gruppi sono etnicamente compatti: come in squadre avversarie, ognuna con jerseys, colori e araldica, ci sono i portoricani, i giamaicani, i messicani, i colombiani e chissà quanti altri che non decodifico. C’è un passaggio famoso nella comunità ciclistica: la discesa che attraversa il confine tra lo Stato del New Jersey e lo Stato di New York. I due territori si lambiscono in quel punto e l’allungo downhill di confine è occasione di sfide come negli arrivi di tappa per velocisti.
C’è tempo per fermarsi in un punto di visuale scenica sul fiume: uno strapiombo di roccia e boschi da cui si vede l’Hudson a perdita d’occhio da un lato e il profilo della città in lontananza dall’altro. Rapaci, volteggiano dai nidi nella roccia. Il gruppo ciclistico grida: “Aquile!”. “Ragazzi di città e cemento, esperti di happy hours ed eventi trend”… penso tra me e me. Quelli che volteggiano sono in realtà avvoltoi. L’angolo della sagoma delle ali inconfondibile. I ciclisti californiani li riconoscono come un emiliano riconosce i piccioni.
Foto di Yael Gitai e Andrea Lollini