Diario americano: mia figlia va al college

In diarioCult, Weekend

Lo stato di New York, titolavano i giornali, esenterà dalle rette chi, guadagnando meno di 150 mila dollari l’anno, manderà i ragazzi nelle università pubbliche. Fantastico, vero? Peccato che non sia proprio così e che l’istruzione resti in America un affare costosissimo per i genitori e un debito che i figli si porteranno dietro

Nelle famiglie medie americane, i figli sono i padroni indiscussi e vengono protetti a vista d’occhio: seggiolino per la macchina fino ai sette anni, mano per attraversare fino ai quindici, merendine a iosa, guai a andare a scuola da soli fino alla terza media, mezzi pubblici no perché ci sono quelli che ti rapiscono e poi ti obbligano a far parte di una setta e mi diventi capellone. La mamma e il papà sono a tutti gli effetti i maggiordomi di questi frignoni di ragazzini, a cui ricordano ogni sera che sono i bambini più belli-intelligenti-sensibili-altruisti-spiritosi del mondo e che se le maestre gli danno la nota perché nel mezzo della lezione si alzano e fanno casino in classe, vuol dire non capiscono il loro bisogno di libertà. Poi, a diciotto anni inizia il college e i genitori, che giustamente sono sfiniti da anni di schiavitù, si liberano felicemente di loro e li vedono tre volte l’anno.

Io invece sono italiana, e l’idea che mia figlia Sofia a settembre se ne vada al college mi prende malissimo. Continuo a ripeterle quello che mia nonna disse a mio padre quella mattina che pioveva e lui non aveva voglia di andare a scuola: «Massì, dai, stai a casa: è meglio un asino vivo che un dottore morto». Ma lei, Sofia, giustamente non vede l’ora di aprire le ali e spiccare il volo. La invidio moltissimo.

Andrà allo Smith College, che è a un paio d’ore da qui. È stata accettata dopo un anno di iscrizioni, richieste a un’altra decina di atenei, moduli da compilare, lettere di raccomandazione dei professori, personal statement in cui doveva descriversi al meglio, tour e colloqui con tutte le università da lei scelte. Il tutto senza perdere d’occhio il mantenimento dei buoni voti durante l’ultimo anno di liceo, quando gli insegnanti pompano questi benedetti ragazzi con un’ansia che io non so se reggerei.

Smith College è uno dei college più prestigiosi e uno dei più difficili in cui essere accettati della East Coast. È solo femminile, è estremamente progressista nell’approccio pedagogico e sforna donne molto intraprendenti e sicure di sé, preparate in qualsiasi campo da loro scelto.

Il costo? Sessantatremila dollari l’anno, cifra vergognosa che include: cinque corsi a semestre, vitto in una delle diverse mense sparse per il campus, alloggio in una delle case vittoriane con sala di lettura, diversi camini e parquet anche in bagno, il tutto in un campus che non ha niente da invidiare al più bel giardino all’inglese mai visto, con biblioteche e palestre per ogni sport aperte tutta la notte, strumenti tra i più sofisticati che la tecnologia può offrire, e un generale senso di benessere dell’anima e della mente.

Una volta che abbiamo saputo che Sofia è stata ammessa nell’università dei suoi sogni, l’abbiamo tutti festeggiata. Come sempre, io ho pianto, all’idea che mia figlia diventerà un’intellettuale-di-sinistra-femminista-e-indipendente, come era il mio sogno, ma anche di tristezza di non averla più qui con me. Poi è toccato a me e a mio marito fare i nostri compiti: compilare decine di moduli per richiedere i famosi aiuti finanziari, visto che ci avevano assicurato che la maggior parte delle studentesse che frequentano Smith pagano una media di venticinquemila dollari l’anno, che è comunque una cifra pazzesca, ma in confronto sembra due lire. I contributi finanziari vengono assegnati a seconda di quanto una famiglia guadagna: a noi invece hanno detratto ben poco, anche se non siamo ricchi e Dan è l’unico che guadagna in una famiglia di cinque persone. In compenso hanno offerto a Sofia una buona borsa di studio e un lavoro nel campus, il cui stipendio, invece che nelle sue tasche, viene giustamente detratto dalla retta.

Siccome i costi per l’università sono davvero spaventosi dappertutto, lo stato di New York ha stabilito che le famiglie che guadagnano meno di 150 mila dollari l’anno saranno esenti dalla retta scolastica (ma non dal vitto e alloggio), solo se frequentano università statali e se rimangono a lavorare nello Stato di New York per due anni dopo la laurea.

Gelosissima di questa regola che nel mio Stato invece non esiste, chiamo la mia amica Liz, che abita a Brooklyn e ha due figli che andranno al college l’anno prossimo. «Beati voi! Complimenti!» le dico al telefono. «Macché complimenti!», mi dice arrabbiata.«Ma secondo te, quante famiglie che vivono a Brooklyn o a Manhattan e che hanno due figli guadagnano solo 150 mila dollari l’anno? Nessuno! Sembrano tanti soldi, ma il costo della vita, come ben sai, qui è allucinante per cui è ovvio che né noi né nessuno di quelli che conosciamo potranno usufruire di questi tagli». Mi spiega che le famiglie meno abbienti hanno già moltissimo supporto, sia dalle istituzioni scolastiche che dallo Stato, e che sono le persone con un reddito medio, invece che sono costrette a indebitarsi per mandare i figli al college. «Non è possibile che non tengano conto dei costi della città e che ci mettano sullo stesso piano di chi guadagna come noi ma vive in provincia, dove tutto costa la metà». È furente.

Suo figlio Zac, a settembre, andrà comunque in una scuola statale anche se dovranno pagare la retta intera, perché poi l’anno prossimo toccherà anche a Henry, suo fratello. Anche se ovviamente li aiuteremo a pagarli, questi enormi debiti, sia quello di Sofia che di tutti i suoi amici, saranno a nome loro, il che significa che, alla fine dell’università, si ritroveranno con l’equivalente di un mutuo-senza-casa da pagare per i prossimi vent’anni. D’altronde Obama e Michelle hanno finito di pagare i loro studi quando già vivevano alla Casa Bianca. «It’s the American way», mi assicurano tutti.

Sarà…

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