Dal capolavoro di Philip Roth, un classico della letteratura americana del ‘900, l’attore, qui debuttante in regia, ritaglia un racconto che privilegia la figura dello Svedese (da lui interpretata). Un film che descrive bene ascesa e caduta del Sogno americano dagli anni ’50 al dramma del Vietnam. Secondo lo scrittore, il migliore fra quelli tratti dalle sue opere: in generale, va detto, abbastanza modesti
Nel New Jersey anni 50 Seymour Levov detto lo Svedese (Ewan McGregor) è il simbolo di tutto ciò che il sogno americano può offrire. Alto, bello e biondo, acclamato campione sportivo, uomo di successo grazie alla prospera fabbrica di guanti messa in piedi dal padre, marito felice di una ragazza bellissima (Jennifer Connelly), padre entusiasta di una meravigliosa bambina di nome Merry (Dakota Fanning), che ha solo un piccolo, quasi irrilevante difetto: balbetta. Forse come risposta a una famiglia troppo perfetta, sostiene la psicologa prontamente interpellata. In realtà, per mandare all’aria la perfezione della sua famiglia Merry farà ben di peggio, appena pochi anni dopo. E mentre gli schermi televisivi d’America si riempiono delle crudeli immagini dalla guerra del Vietnam, Merry deciderà di far esplodere tutte le contraddizioni e portare la guerra in casa, letteralmente.
Anche quest’anno Philip Roth non ce l’ha fatta a portarsi a casa il premio Nobel per la letteratura. L’accademia svedese gli ha preferito Bob Dylan, scatenando un putiferio di commenti e critiche. Come premio di consolazione, forse, ecco arrivare sugli schermi l’ennesimo film tratto da un suo libro, American Pastoral, secondo l’autore il migliore che sia mai stato realizzato (primato, va detto, non così difficile da conquistare, stante la pochezza dei film tratti dai suoi meravigliosi libri, da Lamento di Portnoy a La macchia umana).
A cimentarsi nell’impresa, un po’ a sorpresa per la verità, non un autore affermato di quelli in grado di aggiungere talento a talento e puntare al capolavoro (magari senza riuscirci, ma questo è un altro discorso), e nemmeno un abile mestierante di quelli che a Hollywood non mancano mai. No, nell’impresa si cimenta lo scozzese Ewan McGregor, ben rodato e apprezzato come attore – ha al suo attivo una cinquantina di film in poco più di vent’anni – ma debuttante assoluto come regista.
Nonostante l’inesperienza, il ragazzo si lancia in una doppia sfida, accomodandosi sia davanti che dietro la macchina da presa e prendendo di petto un autentico capolavoro, premiato nel 1998 con il Pulitzer e giustamente considerato un classico della letteratura americana. Un libro di quattrocento pagine che si chiude con un punto di domanda e riesce a narrare con ironia, lucidità e ferocia la storia di una famiglia e di una città, e attraverso questa la storia dell’America intera, componendo un affresco incredibilmente ambizioso, complesso, profondo e al tempo stesso leggero, capace di raccontare sia l’incredibile bellezza del Sogno americano, sia la sua fine, a tratti malinconica, più spesso rabbiosa.
Per uscirne vivo McGregor, insieme allo sceneggiatore John Romano, aveva solo una possibile strada: semplificare, rinunciare a cotanta ambizione per puntare su qualcosa di più piccolo, e quindi maggiormente governabile. Il materiale narrativo di Roth è stato quindi sintetizzato, anzi, meglio, ritagliato. E all’interno del dramma epocale di un intero paese che ha perduto i suoi sogni, viene evidenziato il dramma intimo e personale di un singolo uomo, lo Svedese, persona perbene come tante , che ha passato gran parte della vita convinto d’essere in grado di fare sempre la cosa giusta, senza tentennamenti e forse nemmeno grande fatica, come se un istinto benigno lo guidasse: si troverà all’improvviso davanti all’incomprensibile baratro di una figlia sedicenne che si ribella a tutto, pronta a morire e a uccidere in nome di un bisogno di distruzione e autodistruzione che non sente ragioni. Il dramma di un uomo qualunque, al quale McGregor presta gli occhi chiari, il volto buono, l’espressione addolorata e smarrita eppure ostinata, perché il protagonista non si arrende mai, lotta fino alla fine contro il disgregarsi delle sue certezze, e per riaffermare i propri valori contro chi li vorrebbe distruggere.
Il risultato è un buon film che non ci prova nemmeno a misurarsi davvero col libro di Roth, ma proprio per questo risulta convincente. Un serio prodotto hollywoodiano, impeccabile nella ricostruzione di ambienti e costumi d’epoca, ben recitato e costruito, illuminato da una suggestiva fotografia vintage. Un film ampiamente consigliabile. Certo, più godibile se il libro di Roth non lo avete letto o non ve lo ricordate bene. Perché della tranquilla e affilata ferocia dello sguardo di Roth qui è rimasta una traccia piuttosto vaga. Basti pensare a un aspetto che è stato rimosso: lo Svedese che nel film è disposto a inseguire sua figlia fino alla morte, nel libro di Roth ci viene presentato già nel primo capitolo come un uomo che a un certo punto ha deciso di cancellare il passato e rinascere dalle ceneri. A 50 anni si è risposato e con la seconda moglie ha messo al mondo tre bellissimi figli. Insomma, ha ricostruito il Sogno americano sulle macerie di quello precedente, come se niente fosse. Può sembrare un dettaglio, ma non lo è: perché (anche) qui si annida la differenza fra un libro come tanti e un capolavoro.
American Pastoral di Ewan McGregor con Ewan McGregor, Jennifer Connelly, Dakota Fanning, David Strathairn, Peter Riegert, Uzo Aduba