Torna alla Scala, dopo il fermo pandemia che l’aveva confinata in tv, l’opera di Strauss riletta da Michieletto. E ora l’eroina più perversa del teatro musicale sfida un’ardita vicinanza con l’enigmatico personaggio scespiriano. Teschio compreso
Alla fine, Salome non bacia la “bocca rossa” di Jochanaan, morbosamente desiderato fino a pretenderne la testa, ma dialoga con un teschio (il suo? del padre?). Nello spettacolo in scena alla Scala, frutto di tre anni sofferti, l’eroina forse più perversa del teatro musicale sfida un’ardita vicinanza con Amleto per via di un destino comune: pagare la colpa di essere cresciuti in una famiglia malata e trovarsi a dialogare, giovanissimi, con gli enigmi dell’amore e della morte insieme. Lei con l’accento sul primo.
Curioso è che tutto nasca da un simbolo, il teschio, che nel primo spettacolo non c’era. Quando Salome di Richard Strauss è stata eseguita pressoché a porte chiuse (solo in tv su Rai5) nel febbraio del 2021, la scena madre della testa di Jochanaan consegnata al capriccio della principessa cinta di fuoco, era giocata su un filo che, dall’alto, stillava sangue in un coppiere. Temendola poco leggibile nel Piermarini tornato a pieno regime, Damiano Michieletto e Paolo Fantin, regista e scenografo, hanno scelto di cambiare materia e simbologia. Così la “nuova” Salome della Scala rafforza con un amletico teschio la chiave di lettura che ne fa una produzione d’importanza.
Michieletto si comporta da par suo. Azzera le convenzioni, spazza via le ambientazioni vetero-giudaiche, concentra il racconto in una ambientazione borghese e una costumistica “normale” (di Carla Teti), avvicina antiche perversioni di sesso e potere alla nostra realtà, che le contempla entrambe. Eppure la regia è costellata di visioni e non trascura il nero magico – non la magia nera, per carità – del poema di Oscar Wilde del quale il libretto è la trascrizione. In una scena fissa di candida pulizia, quasi alla Robert Wilson, domina la geometria del cerchio: tondo è il perimetro del pozzo immaginario in cui langue il profeta Jochanaan, che sporca di terra la scena, s’incendia di un grande fuoco (vietato durante la pandemia) e inghiotte Salome condannata a morte dopo il culmine erotico con la testa di Jochanaan. Enorme è la sfera che scende dal soffitto: grande pendolo con cui gioca Salome tornata bambina come il silenzioso “doppio” che appare e scompare, richiamando la violenza d’infanzia di cui si avvelena la violenza da adulta. A raggiera è l’abito insanguinato che si alza da Salome e copre la scena (bellissimo). Si materializzano tutti i simboli della profezia di Jochanaan: “Sta per venire un giorno in cui il sole diventerà oscuro come un panno nero. E la luna diverrà come sangue… e i re della terra tremeranno di paura”. Concreto è anche l’Angelo della morte, moltiplicato in diversi fantasmi bianchi come sepolcri, e ali nere, che attraversano il palcoscenico. Non c’è invece la danza dei sette veli con cui Salome strappa a Erode la morte di Jochanaan, ma la replica multipla della violenza dello zio diventato patrigno. Soprattutto la si ascolta nella musica iterativa di Strauss, e questo basta, deve bastare alla nostra immaginazione di spettatori avvertiti.
Senza Chailly.
Salome è l’opera cui il covid abbia inflitto più pene. Doveva debuttare nel febbraio del 2020 con la direzione di Zubin Mehta; rimase senza fiato. Un anno dopo era di nuovo pronta per la bacchetta di Mehta, che non ce la fece a salire sul podio. In extremis la prese in mano Riccardo Chailly, che il 20 febbraio 2021 la diresse in una sala svuotata dalle poltrone: realtà fantasmatica e musicalmente stupenda che la ripresa televisiva non poteva restituire in tutte le sue finezze. Grazie alla sistemazione aperta, fuori buca, senza bisogno di spingere sul suono e di forzare le agogiche, Chailly fece suonare l’orchestra di Strauss con trasparenze insolite e abbaglianti. Oggi, non potendo riprendere l’opera così vicino al Boris Godunov dell’inaugurazione, Chailly l’ha lasciata ad Axel Kober (14, 17, 24, 31 gennaio) e Michael Gütter (20, 27). Pur felici di vederla a sala piena, immersa nel calore delle rappresentazioni come si sogna sempre di viverle, con questa Salome siamo purtroppo tornati sulla terra. Le finezze cameristiche sono un ricordo e tutto è rientrato nelle stratificazioni “grosse” e nelle evidenze prevedibili di una direzione esperta, sì (Kober), ma anche pesante.
Per fortuna il cast è ancora solido e in due casi di alto profilo: nella Salome di Vida Miknevičiūté, che garantisce potenza e qualità di canto, anche se non il magnetismo del personaggio, che peraltro Michieletto sottrae al cliché della donna fatale e satanica per virarlo su una umanità dolente per le ferite inferte dalle violenze familiari; e nello Jochanaan di Michael Volle, unico rimasto fermo nelle variazioni del cast, potente e ieratico com’è giusto che sia un profeta che impartisce lezioni di rigore. Tengono bene le posizioni l’Erode di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, l’Erodiade di Linda Watson e il Naraboth di Sebastian Kohlhepp. Il tutto, comunque, “nel solco della tradizione” tedesca che lascia alla qualità e all’intelligenza dello spettacolo la gran parte del valore.
Con Chailly
Fra le recite di Salome, tre concerti sinfonici (il 16, 18 e 29 gennaio) riportano Riccardo Chailly in primo piano, alla vigilia dei suoi settant’anni (20 febbraio), e ne fanno il protagonista di un confronto diretto, importante per due motivi: l’opera di Strauss è concordemente uno dei suoi risultati più notevoli come direttore musicale alla Scala; i tre appuntamenti sinfonici (Čaikovskij, Concerto per violino e Sinfonia “Patetica”) sono un nuovo passaggio attraverso la musica russa, che Chailly ha scelto come progetto di lunga durata prima del maledetto febbraio 2022 e mantenuto ferma nei suoi programmi senza scopi dimostrativi, perché, con ogni evidenza, è nelle sue corde migliori. Čaikovskij lo conferma.
Chailly ha generosamente condiviso il successo quasi alla pari con il solista, almeno nella prima parte: Daniel Lozakovich, classe 2001, non è solo l’enfant prodige che viene squillato dalla biografia e dal suo contratto con la Deutsche Grammophon, ma un musicista di lucidità e forza sorprendenti per i suoi quasi ventidue anni. Del Concerto per violino di Čaikovskij domina non solo la dimensione tecnica ma soprattutto quella espressiva, senza che mai l’espansività sconfini nella retorica. Non impressionano tanto le caratteristiche-tipo con cui si misura il virtuoso – velocità, intonazione, diteggiatura, cavata, nettezza su spiccato e balzato –, ma un carattere che distingue l’interprete artista: creare a ogni battuta il senso dell’attesa di quel che verrà, e come. Un gioco, nel senso più alto del termine, che riesce ancora più magico proprio là dove il violino è solo, nelle cadenze, soprattutto in quella del primo movimento. Pubblico in estasi e bis prototipo di tutta la letteratura violinistica. Con l’orchestra che applaude.
Chailly, orgoglioso del suo solista, gli ha cesellato attorno un’orchestra raffinatissima, morbida, ammirevole nei dialoghi stretti con i disegni del violino. Orchestra che nella Sinfonia “Patetica” si è allargata nell’organico e aperta nei fraseggi, come sempre costellati di dettagli e sorprese, grandi e piccole, frutto di una ricerca, di Chailly, sempre attenta a liberare quel che le incrostazioni del tempo hanno nascosto. Ancora una volta, non sono gli stacchi perentori dell’Allegro molto e vivace a rimanere impressi, quanto la carica di nostalgia dell’Allegro con grazia e il morire sul suono puro del finale, che fin dalla sua prima esecuzione ha consegnato come destino non solo musicale la Patetica al dialogo con la morte, anche qui, e alla dimensione del Requiem.
Dopo Salome, Boris e questo Čaikovskij, la presenza di Riccardo Chailly alla Scala ha nuovi punti di riferimento per essere misurata.
Foto: Brescia e Amisano@Teatro alla Scala