Torna in scena, e se ne coglie più che mai l’intelligenza, il classico della produzione di Filippo Timi. Settimane di sold out per il ritorno al teatro Franco Parenti con le tre straordinarie sodali storiche: Rocco, Mascino, Lietti: un viaggio surreale che raccoglie che sintetizza la poetica di Timi, e ne rende evidente l’intelligenza
“I capolavori sono ciechi”, rimbomba la voce profonda di Filippo Timi nel buio della sala. Lo si può leggere partendo da qui, il ritorno dopo quasi tre lustri del suo iconico Amleto2. Che nelle sue mani non è più cieco, chiuso nella gabbia di un’ostinata coazione a ripetere, ma elevato a potenza, al quadrato. Un surreale, provocatorio e inarginabile cut-up del testo shakespeariano, e molto di più. Se ne coglie, in effetti, meglio adesso la natura multiforme. Lasciato alle spalle la spericolatezza dell’azzardo degli inizi, dei costumi comprati ai mercatini e di una misura di sé da scoprire, il ritorno in scena di una compagnia che ha camminato insieme un pezzo di esistenza restituisce ancora la freschezza del gioco scenico, ma ci aggiunge il piacere di godere dell’estro di interpreti che – tra loro – giocano conoscendosi a memoria, ormai capaci di tracciare una partitura scenica anche ad occhi chiusi, in cui le scene si possono dilatare, comprimere, mutare di forma e di toni senza che la metaforica palla che si stanno scambiando serva ad un passaggio lezioso, rallenti o cada, per un solo istante. Lo si deve alla sintonia assoluta tra Filippo Timi, Lucia Mascino, Marina Rocco ed Elena Lietti – a cui si aggiunge il giovane Gabriele Brunelli, che ha il notevole merito di ben figurare, non solo di non soccombere, catapultato a forza in un mondo rutilante e lontanissimo dalle accademie.
La loro perfetta efficacia scenica, si diceva, è un piacere da osservare anche se non si possiedono le parole per nominarla, perché sta lì a dimostrare, sul piano tecnico, di quanti registri e mondi espressivi, tutti insieme, il teatro possa comporsi. Anche per questo l’occasione, data dalla ripresa, di vedere questo Amleto a valle e non a monte del lavoro della compagnia, consente di decodificarne meglio l’universo narrativo e l’immaginario di Timi e delle sue sodali. Nel 2012 si rischiava di essere sovrastati, di certo spiazzati, da una tragedia shakespeariana ricomposta dove il testo originale – nella sua finezza di scrittura, declamata o incartata in un autoironico accenno di balbuzie che disinnesca il monologo più abusato della storia del teatro mondiale – viene condito in salsa pop, nutrito di cartoni animati anni novanta e di pubblicità, dei Puffi e di Scooby doo, di slogan presi degli spot televisivi e Barbie, di Battisti e Sinead O’Connor.
Oggi, invece, di tutto questo potenziale sberleffo emerge con chiarezza, maturata coi suoi interpreti, l’acutezza dei molti piani di lettura. Ai numerosissimi appassionati che hanno fatto inanellare al Teatro Franco Parenti tre settimane di sold out, non stupisce e non pare più blasfemo che il fantasma del Re Amleto, che esige la sua vendetta, abbia i boccoli cotonati, ricorrenti nella produzione dell’attore umbro, di Marilyn Monroe; o meglio (eccolo, l’archetipo) della maschera che una ragazza povera di Los Angeles aveva accettato che le fosse incollata addosso. Cos’è, in fondo, anche Amleto, se non un gioco di maschere? In questo lavoro ci sono, in effetti, molti dei temi che questo gruppo di lavoro ha sviluppato nei lavori seguenti.
Amleto, o meglio la sintesi tra il personaggio e il suo interprete, arriva all’oggi con la voce stanca di un principe che da quattrocento anni sa di stare sotto l’occhio senza pietà di un buio che osserva e ride. Di lui, o di tutti loro, come di leoni in una gabbia con la paglia per terra, a cui si chieda, magari sotto minaccia della frusta, di intrattenere lo spettatore pagante? E allora perché non ridere con lui, invece? Perché non proporre a Laerte la fuga, la libertà e magari il mare, al posto di un duello fatto con armi invisibili? Come altro vincere la noia irreparabile che lascia rendersi contro di essere soli nella consapevolezza della finzione? Questo Amleto2 è, alla distanza, uno straordinario apologo sul confine tra ruolo e identità, che tra palloncini neri e risate grasse dimostra – senza un filo d’accademia e senza bisogno di ricorrere alla banalità di dichiararlo – l’asserzione dell’antropologo Goffmann, laddove scrive che: “ognuno, sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte…è in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri, è in questi ruoli che conosciamo noi stessi”. E allora, è più prigioniero chi della gabbia sta dentro o – solo apparentemente – fuori? E soprattutto, quale parte hai scelto, tu che osservi per te?
L’annoiato e lucidissimo Amleto? La dolce Ofelia, che vuole ostinarsi a restare dentro il confine del copione? Marilyn, che ormai ha imparato l’unico modo di uscirne, giocare a farsi lieve fino alla stupidità, vestire di biondo platino le ferite di Norma. E l’attrice, che – in uno dei monologhi più riusciti e d’impatto della produzione di Timi, dove tragico e grottesco, ironia smaccata e sincerità si fondono, cerca la misura per entrarci senza perdere se stessa, sforzandosi di tracciare il proprio luogo, la propria nicchia ecologica, dove portare una “faccia dritta che vesta bene quello che ho dentro”. Un luogo, come il palcoscenico, dove diventare capace di far esistere il proprio corpo, il proprio modo di essere donna, in un mondo di tanga “affilati come coltelli”.
Se l’arte, imitando la vita, consente di sperimentarla, e se – ancora dal monologo iniziale, che nel suo lirismo offre il metro per misurare la densissima ora e mezzo che segue – “la materia è probabile prima di essere reale”. Amleto, o la sua centrifuga, diventa un pretesto per specchiarci. Disperati, romantici, folli e perduti. Ma più rabbiosi che arresi. Anzi, meglio declinare tutto al femminile, anche sovraesteso.
Visto al suo primo giro sui palcoscenici, tutto l’istrionismo di Timi si imponeva alla memoria forse un po’ a danno del resto, ma qui – per stessa ammissione, orgogliosa, dell’attore perugino – la presenza di quelle che, oggi, sono indiscutibilmente tre prime attrici di caratura assoluta, spicca con una nuova vividezza e aggiunge ai molti piani di lettura anche quello del pensiero intorno al corpo delle donne, a quel che a loro si concede e da loro ci si aspetta, dentro e fuori dal ruolo: lo testimonia una Gertrude atletica e sboccata, che rivendica il diritto a decidere personalmente i tempi e i modi con i quali consegnare il suo corpo a un maschile che ha sempre e comunque deciso per lei.
Così la risata – ed è forse questo il precipitato del Timi autore in purezza che qui si sintetizza – è una danza con la morte e col dolore, e il paradosso spinto all’estremo ad un certo punto comincia ad evocare la paura. Non si rinuncia a passaggi raffinati, ma, in questo lavoro in bilico tra la confessione, l’esegesi e il gioco, sono i passaggi dove è più evidente quest’ultimo a mettere in evidenza – meglio delle porzioni compassate da attore di prosa, pur sempre molto ben gestite, il valore scenico dei suoi interpreti (gli spettacoli di questa compagnia dimostrano ormai da anni quanto occorra molto più mestiere per recitare una scena di molti minuti retta sulla parola “cosa” o, come qui, su una lunghissima emissione di fiato in forma di pernacchia). Ma è nell’anarchia di questo gioco un po’ kitch e un po’ melanconico che è il teatro che si può dire la verità. Esporre senza rete di protezione – o in una gabbia piena di vuoti – un sentire senza filtri e ricco di pagliuzze a loro modo di genio, a patto di saperle veder brillare. Nelle luci e nei colori del teatro, una prigione sì, ma in cui “non c’è quello strano, quello disadattato, quello coso, non c’è”. C’è l’attore, e la sua intima, irresistibile, ineludibile verità.