OTELLO, LA TRAGEDIA DELL’ATTRICE

In Copertina Teatro, Teatro

FOTO © GIANLUCA PANTALEO

Al Teatro Carcano fino al 30 ottobre un Otello con otto attrici in scena per raccontare la forza di un classico da un punto di osservazione meno frequentato: il ruolo del teatro. Regia di Andrea Baracco

Attore, in greco si dice ὑποκριτής, hypocritēs: colui che sa ingannare. Che Otello sia la tragedia dell’inganno non è certo una novità. Che sia quella dell’attore, è una lettura indubbiamente interessante. O d’attrice, in questo caso. La versione in scena al Teatro Carcano fino al 30 ottobre, sostanzialmente fedele al testo shakespeariano, ma nella vitale resa di Letizia Russo, vede infatti un cast completamente femminile.

In un rovesciamento contemporaneo della tradizione elisabettiana per cui, nel momento in cui è stata scritta, anche i panni di Desdemona erano indossati da un uomo, oggi è un cast di donne a interpretare anche tutte le molte sfumature del maschile che il Bardo porta sul palcoscenico. Se è vero che questo rovesciamento pare indagare l’umano, al di là – nonostante l’escamotage vistoso – dell’argomento di genere, questa pare, con pochi dubbi una tragedia del maschile, dei suoi aspetti deteriori: meglio sarebbe dire, quindi, del maschilismo di cui tutti si possono fare portavoce. Il possesso, la violenza, l’istinto sessuale predatorio, sono sempre gridati, rivendicati come l’ossatura del suo intero dipanarsi.

 Un esercizio di virilità parossistico e continuo. Quando questo prova a cedere il passo a una dimensione costruttiva, anziché distruttiva, sia essa l’amore o l’amicizia, la crudeltà e la menzogna sono in agguato pronti a svelare l’animo umano. O a forzarlo, come la scenografia oppressiva e ingombrante di Marta Crisolini Malatesta, che rinchiude l’azione scenica, angosciosa nella sua freddezza anche quando esplode di un bianco violento, e su cui le aperture a fondo scena sono la prefigurazione di incubi in arrivo.

A tessere e tirare i fili, governando paure e certezze apparenti è – la storia è nota – Iago, nella sua spietatezza sottile pronta a dar forma a una realtà alternativa pur di appagare con la morte l’odio che lo divora. Per Otello, il Moro, il generale più valoroso, ma anche verso Cassio, luogotenente nel ruolo che avrebbe dovuto appartenergli, e verso tutti gli altri, Roderigo ma anche la stessa Desdemona, troppo fragili, forse troppo sinceri, per essere altro che suoi strumenti.


Iago è il motore dell’intero ingranaggio, essenziale a dimostrare che La realtà perde sempre di fronte alla recita, la parola non è mai ciò che sembra. Perché per chi, come lago, sa manipolare le regole del gioco, tutto è falso, è interpretazione. È un teatro di marionette che si lasciano ingannare da una parola trasformata in magia nera, e diventano piegabili a qualsiasi mostruosa narrazione il maestro di cerimonie scelga di rendere vera o verosimile. Così Iago non è solo il demonio, ma il consapevole regista di una tragedia di cui solo lo spettatore può leggere la componente grottesca.

Solo a chi osserva, in un dialogo spesso esclusivo fitto di a parte, fa ricordare o insegna a riconoscere come si può plasmare quel che avviene sulla scena della vita dei suoi personaggi. Iago attore e ipocrita, doppio come per definizione è chi di mestiere finge, e rischia sempre di sovrastimare i propri mezzi. Se – o fino a che – questo non accade, però, il regista ha gioco facile a schiacciare gli interpreti. Solo l’altro, il diverso, il pazzo, si può liberare dalle catene e muoversi, anche in una gabbia, con la libertà disarticolata dei disperati.

Qui, questo – delicatissimo – compito, quello del fool, è di Viola Marietti, che prima di prendere apertamente le fattezze del clown disarticolato (scrittole addosso ex novo dal pregevole lavoro di Russo) è un Montano scanzonato che svetta sul primo atto per varietà di sfumature. E canta, suona e sfugge alle definizioni. La libertà che le è data e che si prende, anche quella di mostrare le proprie qualità interpretative, alle compagne di scena la regia – quella autentica di Andrea Baracco, a specchio del proprio alter ego scenico – la concede solo con l’andare delle pur dense due ore e mezza di messa in scena.

L’ottimo Iago che va in scena è Federica Fracassi, che si concede così di aggiunge un altro impegnativo tassello alla sua già ricca galleria di indimenticabili mostri dal volto umano (si recuperi, per chi l’ha persa, la Trilogia dello Spavento). Alle altre il compito di dimostrare il loro valore in un crescendo, via via che viene loro concesso un ritmo che consente di indagare ed esprimere maggiormente l’interiorità, a scapito di un primo atto che cerca di tenere insieme la quantità di informazioni necessarie alla comprensione degli eventi senza appesantire la fruizione, con un eccesso di ritmo che va a scapito forse della vividezza dei caratteri.

Ma quanto più ci si immerge nella vicenda tanto meglio si possono apprezzare la furia disperata dell’umanissimo Otello di Ilaria Genatiempo, la limpidezza della Desdemona di Cristiana Tramparulo. Cassio, giunto a Cipro come luogotenente di una guerra che non combatterà mai e preda del proprio ruolo, è Virdiana Costanzo, mentre a Federica Fresco e Francesca Farcomeni tocca moltiplicarsi, rispettivamente, (tra gli altri ruoli) nelle urgenze di verità di Bianca e Ludovico e – soprattutto – nello strappo risolutivo del velo tra realtà e finzione di Emilia, moglie di Jago, non più disposta ad accettare le menzogne che avevano invece alimentato l’illusione di Roderigo (Valentina Acca).

 Rese sceniche interessanti, dove non di rado a farla da padrona è la musica, ma che sperimentano con intelligenza un ampio uso del corpo e del movimento in scena, e non si fanno costringere dallo spazio del palcoscenico ma provano ad occupare l’intero teatro, diventano così l’occasione per mettere di fronte non solo i personaggi a se stessi ma – a ben guardare – l’intero dispositivo teatrale.

Si rassegni chi cerca su questa scena lo scioglimento del dilemma che lega insieme verità e finzione. È proprio la messa in evidenza della finzione a conferire una nuova forza a questo caposaldo della letteratura teatrale e a confermarne lo stato di salute senza sia necessario venire meno alla traccia originale. Ma soprattutto, la compenetrazione di realtà e inganno è forse la sua vera sostanza, l’una non esisterebbe senza l’altro.  Tentare di sciogliere questo mortale abbraccio, di fare una lettura univoca delle possibilità, lascia sul palco nessun vincitore, ma soltanto corpi di vinti.

FOTO © GIANLUCA PANTALEO

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