L’amore e Barthes. Intervista impossibile

In Interviste, Letteratura

Un colloquio surreale con Roland Barthes sul discorso amoroso, l’innamoramento, la gelosia, il trauma, l’ipnosi. In una parola: l’amore.

Quest’anno Roland Barthes avrebbe compiuto cento anni. Sempre quest’anno l’editore Mimesis lo ha riportato un po’ in vita pubblicando degli inediti sull’amore che si vanno ad affiancare all’ormai classico Frammenti di un discorso amoroso. Intervistare Barthes mi sarebbe piaciuto, ma il tempo raramente è dalla nostra parte, allora ho deciso, un po’ Dante, un po’ Manganelli, di scendere laggiù dove ci sono i vermi per farmi un chiacchierata (impossibile) con il signor Barthes e vedere come se la passa al suo centenario. Il naso adunco me lo ha già dato la natura e gli straccali per fortuna costano poco.

(G) Monsieur Barthes, come se la passa quaggiù?
(B) Me lo dica lei, infondo siamo nella sua immaginazione

Ha trovato per caso l’amore?
Attendo.  L’attesa, attendere l’altro, colui o colei che si ama, è una figura cardinale del sentimento amoroso. L’innamorato passa la vita, il tempo, ad attendere.

Come mai è tornato a parlare d’amore?
Un po’ perché alla mia età non si può essere troppo seri: la parola amore è maneggiata da tutti, è in tutte le canzoni e amour può far rima con toujours, e tutti sanno che amore rima con fiore e cuore. Allora, evidentemente, parlare d’amore non sembra serio. E poi volevo essere un po’ fuori moda: quando scrivevo i Frammenti di un discorso amoroso negli anni ’70, l’amore negli ambienti intellettuali era un po’ messo da parte.

Ma anche nel sentimento popolare, non le sembra?
Bien sûr, se guardiamo agli scherzi, alle battute salaci, questi svalutano il soggetto innamorato che viene assimilato a un lunare, a un folle.

Ma l’amore è una malattia?
Il soggetto innamorato non vuole e non deve considerarsi come un malato, a dispetto del mito Amore-Malattia (rilanciato spesso dall’assimilazione a una psicosi considerata anch’essa come un tabù morboso).

Ma quindi quest’amore cos’è in definitiva? Che cosa pensa dell’amore l’innamorato?
Tutto sommato egli non pensa niente. Ciò che vuole conoscere (l’amore) è la stessa cosa con la quale egli ne parla (il discorso amoroso); anche se discorresse sull’amore per un anno intero non potrebbe sperare di riuscire ad afferrare un concetto se non “per la coda”. Il punto più oscuro, secondo un proverbio cinese, è sotto la lampada: ed è proprio lì che si nasconde l’amore.

Ma come possiamo fare a definirlo? Ciò che mi dà fastidio è il verbo (essere): la definizione, perfino la denominazione: io vivo della parola “amore”, e, tuttavia, essa mi inganna
Ritorna sempre la questione: “Ma infine che cos’è l’amore?”. Se sei diabetico puoi facilmente comprare un prontuario sul diabete. Se sei innamorato vorresti dei libri che spieghino l’amore, ma nessuno ci riesce. Non potendo sapere cos’è l’amore, ricorri ad altri pensieri: svolgi un’indagine sui grandi discorsi che hanno potuto parlare d’amore e li interroghi con angoscia. Certo, se sei innamorato puoi cercare, leggere, valutare tutti coloro che hanno tentato di chiarire l’essere dell’amore: ma in te qualcosa di intrattabile finisce sempre per dire: che cosa esso è per te.

 Nella vettura che porta il giovane Werther al ballo in campagna e che deve passare a prendere Charlotte, un’amica gli parla di Charlotte: «Conoscerà una bella ragazza […] purché stia in guardia a non innamorarsi». All’arrivo Werther vede subito Charlotte già a partire dalla scalinata: è la veduta. Dopo la prima apparizione, la ragazza è vista in situazione mentre taglia una fetta di pane. Nella vettura diviene incantesimo ogni cosa che man mano si va presentando, Charlotte diventa progressivamente l’oggetto perfetto. È così che ci si innamora?
L’innamoramento è un ratto, una cattura, un rapimento del soggetto amato da parte dell’oggetto amato: amor che al cor gentile ratto s’apprende; non stupisce allora il parallelismo tra il vocabolario amoroso e il vocabolario militare e basta guardare alla poesia di tutti i tempi.
Mi vengono in mente dei versi di un poeta francese tardo-romantico, Robert de Bonnières:

Del suo dente improvviso e vorace
Come un cane l’amore mi ha morso…
E seguendo il mio sangue sparso,
va’, cerca la mia traccia.

Qui non c’è una metafora militare, ma è ugualmente interessante: il morso animale rinvia all’idea di un trauma (e trauma in greco significa ferita): tutto si svolge come se un trauma (dalla natura enigmatica) determini uno stato ipnotico (che, nella sua durata, sarà lo stato dell’innamoramento). A partire da qui il soggetto innamorato si trova impegnato nella scissione, nella dissociazione di due sistemi: uno mondano e l’altro amoroso. Il soggetto si trova ghermito, gli occhi incollati alla visione.
Ricordiamoci che per Freud il rapporto ipnotico consiste nell’abbandono amoroso totale.

Ed in questo stato ipnotico l’innamorato fatica a definire l’amato, questo si configura come L’Inconoscibile
Io sono prigioniero di questa contraddizione: da una parte credo di conoscere l’altro meglio di chiunque e glielo dichiaro trionfalmente («Io sì che ti conosco! Solo io ti conosco veramente!»); e, dall’altra, sono spesso colpito da questa evidenza: l’altro è impenetrabile, sgusciante, intrattabile, non posso smontarlo, risalire alla sua origine, sciogliere il suo enigma. Da dove viene? Chi è? Mi esaurisco in sforzi inutili: non lo saprò mai.

Ma prodigarsi, adoperarsi per un soggetto impenetrabile, è religione pura. Fare dell’altro un enigma irrisolvibile da cui dipende la mia vita non significa consacrarlo come dio? Io non riuscirò mai a risolvere l’enigma che egli mi pone: l’innamorato non è Edipo. Non è vero che quanto più si ama, tanto più si capisce; ciò che l’azione amorosa ottiene da me è soltanto questa cognizione: nell’altro non c’è nulla da scoprire. Piuttosto è un impulso mistico: io accedo alla cognizione dell’inconoscibilità.
Certamente, anziché voler definire l’altro io volgo l’attenzione su me stesso: «Cos’è che voglio, io che desidero conoscerti?»

A questo punto mi viene in mente un passo dei Dialoghi con Leucò di Pavese, Orfeo scende nell’Ade a cercare Euridice, ma si volta e perde per sempre la sua amata.

Bacca: «Come hai potuto rassegnarti Orfeo?  Chi ti ha visto al ritorno facevi paura. Euridice era stata per te un’esistenza»
Orfeo: «[…] Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino se vuoi. Mi ascoltavo […] ho cercato me stesso. Non si cerca che questo»

 Pensiamo anche al dolore dell’altro: proprio mentre mi identifico sinceramente nell’infelicità dell’altro, ciò che vedo in questa infelicità è che essa si manifesta senza di me e che, essendo infelice di per sé, l’altro mi abbandona: se egli soffre senza che io ne sia la causa, vuol dire che per lui io non conto: la sua sofferenza mi annulla nella misura in cui lo pone fuori dalla mia portata.

 Eppure l’altro esiste e io lo amo proprio in quanto altro. Continuamente invitato a definire l’oggetto amato, e soffrendo a causa della problematicità di questa definizione, il soggetto amoroso sogna una saggezza che gli farebbe accettare l’altro così com’è, senza aggettivo. Io vedo che l’altro persevera in se stesso; questa perseveranza contro cui cozzo, è lui stesso. Io impazzisco nel constatare che non posso mutarlo. Vedo sì l’altro come tale, ma, nella sfera del sentimento amoroso, questo tale mi arreca dolore perché ci separa e perché, una volta di più, mi rifiuto di riconoscere la divisione della nostra immagine, l’alterità dell’altro.
Io accedo ad un linguaggio senza aggettivi. Amo l’altro non per le sue qualità, ma per la sua esistenza; con un impulso che possiamo tranquillamente dire mistico, io amo non ciò che è, ma: in quanto è. Ogni giudizio è sospeso, il terrore del significato abolito.

Tu – non foglia che cresce
ma crescersi di foglia.
Tu – non mare che splende
ma splendersi del mare.
Tu – amore nell’amare.

 Ciao, Sublime.
Ciao, Essere Umano semplicemente.

(da O Beatrice, Giovanni Giudici)

Credo che questo sia il grande enigma del sentimento amoroso.

Voglio raccontarle un fatto un po’ strano, tanto si sarà capito che ho qualche problema, sto qui a parlare con un morto – senza offesa. Ho passato un pomeriggio a voler disegnare, a voler raffigurare l’androgino di Aristofane: è di aspetto tondeggiante, con quattro mani, quattro gambe, quattro orecchie, una sola testa, un solo collo. Come sono disposte le due metà? Schiena contro schiena o faccia a faccia? Io mi ostino ma, o perché pessimo disegnatore o perché mediocre utopista, non vengo a capo di niente.
Raffigurazione di quell’«antica unità il cui desiderio e la cui ricerca costituiscono quello che noi chiamiamo amore» (Platone), l’androgino non è per me raffigurabile; o, almeno, ciò che io riesco a delineare è soltanto un corpo mostruoso, grottesco, improbabile. Dal sogno, esce una figura-farsa: proprio come dalla coppia folle nasce l’osceno della vita a due (vita natural durante, l’uno cucina per l’altro).

So che lei è un avido lettore della Recherche. Una cosa mi ha sempre colpito: il narratore proustiano forse non è nemmeno innamorato. È solamente geloso. Un po’ come quando Tallemant des Réaux, scrittore del seicento, scrive di Luigi XIII nelle sue Historiettes: «I suoi amori erano degli strani amori: in essi non v’era nulla di amoroso, all’infuori della gelosia»
Nel romanzo Iperione di Hölderlin Melito è condivisa perché è perfetta e Iperione ne soffre: se non accetto la spartizione dell’essere amato, io nego la sua perfezione, giacché è proprio della perfezione il fatto di essere condivisa. E così io soffro due volte: prima per il fatto stesso della spartizione, e poi per la mia incapacità di sopportarne la nobiltà.

Io, personalmente, mi obbligo a non essere geloso per la vergogna d’esserlo. La gelosia è brutta, è borghese: è un fervore indecoroso, uno zelo – ed è appunto questo zelo che io rifiuto.
Come geloso soffri quattro volte: perché sei geloso, perché ti rimproveri d’esserlo, perché temi che la tua gelosia finisca col ferire l’altro, perché ti lasci soggiogare da una banalità: soffri di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri.

«Le arance che avevo messo da parte, e che ormai erano le sole che fossero rimaste, ebbero un effetto meraviglioso, solo che ad ogni spicchio ch’essa per cortesia doveva spartire con una vicina indiscreta, provavo un colpo al cuore» (I dolori del giovane Werther). 

Il mondo è pieno di vicini indiscreti, non trova?
Il mondo è precisamente questo: un obbligo di spartizione. Il mondo (il mondano) è il mio rivale. È fastidioso tutto ciò che cancella la relazione duale, tutto ciò che altera la complicità e allenta il legame di appartenenza: “Tu appartieni anche a me” dice il mondo.

Quando sono innamorato talvolta il mondo mi appare irreale (io lo esprimo in un modo diverso), talaltra mi appare de-reale (io lo esprimo con difficoltà).
Nel primo caso il rifiuto che tu opponi alla realtà si estrinseca attraverso una fantasia: tutto ciò che ti circonda muta di valore rispetto a una funzione, che è poi l’Immaginario; in quanto innamorato ti separi quindi dal mondo, lo irrealizzi perché, su un altro versante, fantasmatizzi le peripezie o le utopie del tuo amore; ti abbandoni all’Immagine e, di conseguenza, tutto ciò che è reale ti infastidisce. Anche nel secondo caso vi è una perdita di contatto col reale, ma qui nessuna sostituzione immaginaria viene a compensare la perdita: non sei più nemmeno nell’Immaginario. Tutto è cristallizzato, pietrificato, immutabile, cioè insostituibile: l’Immaginario è proscritto. Nel primo caso sei nevrotizzato; nel secondo caso sei pazzo.
Tuttavia se, mediante un atto di padronanza di scrittura, riesco a dire questa morte, allora io comincio a rivivere. Da qui il grande proliferare della letteratura amorosa.

 Ci sono dei versi di Enrico Testa che mi piacciono molto:

[…]vocativo
per veglie albe notti,
preghiere a volti muti, ascolti
sempre in duplice tensione:
rivolto altrove e ad altri
o nell’attesa di una chiamata.

(da Ablativo)

 Cosa ne pensa? Questa “vocazione” non è uno dei tratti più caratteristici dell’amore?
All’assente io faccio continuamente il discorso della sua assenza; situazione che è tutto sommato strana; l’altro è assente come referente e presente come allocutore. Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato fra due tempi: il tempo della referenza e il tempo dell’allocuzione: tu te ne sei andato (della qual cosa io soffro) tu sei qui (giacché io mi rivolgo a te). Io so allora che cos’è il presente, questo tempo difficile: un pezzo di angoscia pura.

Monsieur Barthes, è stato un piacere parlare con lei, ma forse ora mi conviene tornare nel mondo dei cosiddetti vivi. Sa, non vorrei correre il rischio di dover restare per sempre qui. E le confesso, torno a casa con una certa angoscia.
Suvvia figliuolo: non bisogna lasciarsi impressionare dai deprezzamenti di cui è oggetto il sentimento amoroso. Bisogna affermare. Bisogna osare. Osare amare…

 

 

[Per inscenare questa intervista impossibile a Barthes mi sono servito principalmente di due strumenti: i Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 1979 e Il discorso amoroso, Mimesis, 2015]

Immagine: Roland Barthes circa 1970 

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