Scrittrice, sceneggiatrice e regista del film tratto dal suo romanzo, Francesca Comencini racconta il complicato rapporto tra una nevrotica e insicura Lucia Mascino (che “fa un po’ la Buy”) e l’egoista e pragmatico Thomas Trabacchi (un po’ troppo “impostato” in stile melò-fiction). Un cliché già molto visto, per un film a metà tra storia seria raccontata con leggerezza e umorismo venato di malinconia
Che differenza c’è tra un festival del cinema e un festival dei luoghi comuni? Nessuna a quanto pare, almeno stando a quanto dimostrato ancora oggi da una fetta (sempre più sottile, grazie al cielo) del cinema italiano. Poi, soprattutto nella commedia, c’è chi sui luoghi comuni ci campa egregiamente e con stile (Virzì), chi vi si discosta per raccontare storie piccole, delicate e mai banali (Soldini), chi ormai segue la sua strada forte di decenni di meritati successi (Salvatores), e chi prova a fare tutte queste cose insieme, e non glie ne riesce neanche una.
È il caso di Amori che non sanno stare al mondo di Francesca Comencini, tratto dall’omonimo romanzo di Francesca Comencini, e già questo, oltre al titolo da parodia guzzantiana di una soap opera di provincia, è un campanello d’allarme: scrittrice, sceneggiatrice e regista del suo film, la Comencini agisce con ubiquità e mano libera di tediare il suo pubblico per un’ora e mezza buona di banalità sull’amore, battute fuori campo che non fanno ridere, rivendicazioni intimo-femministe fuori tempo massimo e interminabili scene lesbo-chic senza alcuna utilità se non quella di concedere allo spettatore il tempo di guardare l’orologio per capire quanto manca alla fine.
Certo, gli attori non aiutano. Non aiuta scegliere un’attrice che non sia Margherita Buy per poi chiederle di fare la simpatica nevrotica come Margherita Buy: Lucia Mascino ci prova, e ogni tanto ci riesce anche, ma il suo birignao da voce narrante fa l’effetto del gesso nuovo sulla lavagna. Thomas Trabacchi ha il portamento e la voce impostata dell’attore di fiction a sfondo sentimentale, e si trova pure cucito addosso un personaggio a tratti insopportabile, troppo per sembrare vero.
Ed è proprio questo il punto: i personaggi della Comencini sono, nessuno escluso, soltanto personaggi, messi lì a giustificare monologhi e scambi a (presunto) effetto, ruffiani e telefonati. Azzeccano qualche battuta, strappano qualche risata, e in uno o due momenti commuovono persino. Ma non sono MAI credibili, neanche un po’. Il che sarebbe perdonabile, anzi, quasi piacevole, se il film decidesse che strada prendere, magari virando con una certa convinzione verso toni da commedia: il problema è che non lo fa, preferendo barcamenarsi nell’indecisione tra la storia seria raccontata con leggerezza e l’umorismo venato di malinconia, senza che né attori (decisamente più a loro agio nei momenti drammatici, comunque) né regista riescano a gestire l’una o l’altra versione.
La trama, quella sì è credibile, e per forza: è la stessa già vista e sentita milioni di altre volte in milioni di altri film italiani fatti con lo stampino. C’è l’isterica insicura che ama l’egoista protettivo, sognando matrimonio e figli, mentre lui mette il suo lavoro avanti a tutto perché è insicuro dentro. C’è che l’uomo è rigido e pragmatico e non capisce il turbinio emotivo della donna (ma alla fine vince lei, olè!). C’è l’amica del cuore con cui confidarsi al bar come dallo psicanalista, ci sono i litigi e facciamo la pace davanti al caminetto, ci sono lui, lei e le altre, ci sono i ricordi gettati nel fiume dal ponte perché la corrente li porti via, e c’è persino il professore universitario che si fa le studentesse.
Cosa manca? Nella migliore delle ipotesi, la convinzione nelle proprie idee, da parte di tutti, per raccontare qualcosa anziché abbozzarla soltanto con l’aria di chi è appena atterrato da un altro pianeta. Nella peggiore delle ipotesi, a mancare sono proprio le idee, l’originalità e la capacità di dire qualcosa di nuovo rispetto a chi ha già detto, e molto meglio di così.