Arriva nelle sale italiane il 15, 16, 17 settembre il documentario di Asif Kapadia sulla cantante inglese, passato a Cannes. Un ritratto privato e struggente
Lei ha 14 anni e sta cantando Happy birthday insieme a un gruppo di amici. Una dopo l’altra le persone intorno a lei si zittiscono e rimangono in silenzio ad ascoltare la sua voce potente, profonda, che si distacca da quelle degli altri. Siamo nel 1998 e la ragazzina che sorride circondata dagli amici e canta nello schermo è una giovane Amy Winehouse. Inizia così, con un video privato della sua infanzia, il film – documentario Amy, il racconto che Asif Kapadia ha realizzato sulla vita di una delle cantanti più tormentate e incomprese della nostra generazione.
Quella di Amy Winehouse è una storia che conosciamo tutti: prima il successo, poi le droghe e l’alcool, infine l’inevitabile crisi. Un veloce e tormentato declino che l’ha uccisa all’apice della sua carriera, facendola entrare nel 27 club, quel gruppo di grandi artisti morti a 27 anni a causa di alcool e droghe, come Kurt Cobain, Janis Joplin e Jimi Hendrix.
“Avevo 16 anni e cantavo – mi piaceva, ma non avrei mai pensato che sarebbe stata una scelta professionale”
Il talento del regista del documentario sta non tanto nel raccontare questa storia, appunto, già nota, ma nel costruire una narrazione che mescoli in modo armonioso pubblico e privato, spiegando quello che c’era dietro le sue azioni, le sue risposte distratte ai giornalisti, le sue ultime tristi esibizioni. Montando sapientemente video amatoriali, fotografie, interviste televisive e soprattutto canzoni, Kapadia fa in modo che la stessa Amy si racconti al pubblico.
E le canzoni sono la chiave di tutto. Il documentario mette nero su bianco tutto quello che ha portato a quei testi strazianti che le hanno donato il successo; dall’album Frank, il suo incredibile debutto, fino al più celebre Back to Black. Quella non era “roba annacquata” come diceva lei; in quei testi c’era la sua anima. È come se Kapadia dicesse al suo pubblico “Lo sai perché Amy ha scritto proprio quella frase?”. E mostrandoci le fotografie amatoriali di Amy, circondata dalla droga nel suo appartamento di Camden, fa in modo che sia la cantante stessa a darci una risposta.
Con questo documentario tutti noi – fan, appassionati di musica, lettori di gossip o giudicatori di vite altrui – siamo in grado di vedere una Amy Winehouse inedita. E proprio per questo è un documento straziante, perché mostra il grido d’aiuto che la cantante lanciò numerose volte, ma che nessuno raccolse.
«È stata una delle cantanti jazz più vere che io abbia mai sentito. Per me dovrebbe essere trattata come Ella Fitzgerald, come Billie Holiday. Aveva il dono totale. Se fosse ancora viva le direi: “Rallenta. Sei troppo importante. La vita ti insegna come vivere, se riesci a vivere abbastanza a lungo”». Tony Bennett
Ci si commuove, con questo film, ci si commuove come ha fatto la stessa Amy nel vedere il suo idolo Tony Bennett annunciare lei come vincitrice del Grammy; e ci si commuove nel vedere che quando i due collaborarono, e lei si sentiva come la cantante inesperta di fronte al maestro, lui la rassicurava con consigli paterni. Ma soprattutto ci si commuove vedendo che il mondo aveva capito il suo valore. Lei, invece, no.
Immagine di copertina © Winehouse family