Anatomia di un Suicidio, della drammaturga britannica Alice Birch, è in scena al Piccolo Teatro Grassi fino al 19 Marzo, e andarlo a vedere è come immergersi in un fiume gelido per tre ore che impietoso ti scorre addosso. Anzi, forse è più corretto dire che i fiumi sono tre…
Anatomia di un Suicidio è una storia di famiglia e solitudine: un paradosso che permea tutto lo spettacolo. Pur sapendo benissimo che ci si può sentire terribilmente soli anche in mezzo alle persone che più si amano il testo della britannica Alice Birch dimostra quanto sia impossibile stare soli in famiglia. Neanche se ci si sveglia di notte e si esce a passeggiare. Neanche se tutta la tua famiglia è morta. È impossibile trovare solitudine e pace. Questo è quello che ci dimostrano le tre protagoniste di questa storia. Carol (Tania Garribba), la figlia Anna (Petra Valentini) e la di lei figlia Bonny (Federica Rosellini).
Carol e Anna morte suicide e l’erede Bonny cercano di rompere questa catena indistruttibile che le unisce: il cordone ombelicale. Le tre attrici reggono per tre ore il peso di queste storie così lontane e così simili; e tutti gli altri nove interpreti sono acrobati con loro in questa coesistenza di tempi lontani sullo stesso palco, nello stesso momento, in questo esperimento di “psichica collettiva” come l’ha definito Lisa Ferlazzo Natoli, regista dell’opera insieme ad Alessandro Ferroni.
Anatomia di un Suicidio è anche la storia di una casa. Una casa creata con la bellissima scenografia di Marco Rossi, in cui ci sono esplosi molti “incidenti” come ripetono i medici, come dicono “gli altri”, ma anche molte feste, molti incontri, molta vita e tanti tipi di amore. Una casa abitata da donne che hanno paura, molta paura, donne che vengono sminuite e umiliate, ma che sono profondamente lucide, nonostante le ferite, nonostante il sangue. Una casa che accoglie le loro potenzialità, la voglia di vivere, tra una continua ricerca di stabilità e un continuo rifiuto della stessa. La casa è un punto fisso, amata, odiata, ereditata. Il pavimento della casa si bagna d’acqua a un tentativo di suicidio di Carol, e si bagna d’acqua nuovamente, quando Anna dà alla luce Bonny, in salotto. Bonny non conosce sua madre e sua nonna, il loro rapporto con l’acqua, con la vita e con la morte, ma le sente e vuole guarire da quello che sente.
Anatomia di un suicidio non è però la storia di un suicidio – incredibilmente. Il tema è giusto accennato, viene trattato con estrema delicatezza, non c’è violenza nello spettacolo, anche i momenti più crudi sono rappresentati con finezza. Non c’è romanticismo, né morale.
Anatomia di un Suicidio è una storia di storie. E questa è una grande prova sia per gli interpreti che per il pubblico, che si trova a volte a dover scegliere quale storia seguire, quale donna ascoltare. Da questo punto di vista lo spettacolo è innovativo, perché è impossibile assistervi passivamente, tocca impegnarsi, comprendere la non semplicità – in senso buono. Le storie si mescolano a volte bene, a volte come l’olio e l’acqua, restando staccate, rendendo impossibile il rapporto tra generazioni, tra madre e figlia, nonostante il segno del passato resti indelebile sulle generazioni future e nonostante le tre attrici siano l’una di fianco all’altra: sembrano infatti spesso divise, lontane, sorde tra loro.
Lo spettacolo è prodotto dal Piccolo Teatro ed è un progetto del collettivo Lacasadargilla, di cui fa parte Lisa Ferlazzo Natoli e con cui collaborano la maggior parte degli attori del cast di Anatomia. Lacasadargilla è solita lavorare su dispositivi linguistico sincretici, come hanno già dimostrato con lo spettacolo When the Rain Stops Falling. Non è infatti la prima volta che riflettono sul tempo, che uniscono passato, presente e futuro, e questo è uno dei fattori che ha attratto i registi verso il testo di Birch, oltre l’esplorazione della linea femminile. Alcune parole di Lisa Ferlazzo Natoli riguardo alla propria madre racchiudono ciò che hanno vissuto i personaggi, ciò che li unisce alla regista e all’autrice: Il mondo si è completamente ristretto da quando lei non c’è più.
Foto © Masiar Pasquali