Bruni e De Capitani riportano sulle scene il vibrante testo di Kushner, con un Angelo Di Genio alla prova più matura della sua carriera
Rispetto a dieci anni fa, questa magnifica edizione di Angels in America del Teatro dell’Elfo scoppia come una bomba nella coscienza dello spettatore che siede tra le macerie.
Un po’ perché nel frattempo (la prima assoluta delle due parti del testo del Pulitzer Tony Kushner risale al 1990-91) i temi legati all’universo LGBT sono esplosi e mutati nella società; e un po’ perché il magnifico copione (introvabile l’edizione Ubu di Franco Quadri) non si può imbrigliare solo nelle vesti di una fantasia gay, come giustamente dice lo stesso autore, ma nel finale va molto oltre, getta la pietra oltre lo steccato delle divisioni dei sessi.
Nel discorso di Prior Walter ti accorgi che è l’evoluzione del mondo, oggi così eticamente a rischio, ad essere presa in considerazione, è questa la speranza nel futuro che dobbiamo portarci a casa anche se sempre con maggior fatica.
Poi, certo, le storie sono legate legatissime, agli incontri e alle tematiche omosessuali. Prior cui viene diagnosticato l’Aids subito prima che si apra il sipario vive col giovane Louis che non ha il coraggio di affrontare la situazione e lo lascia; il giovane brillante avvocato mormone con una moglie che si riempie di psicofarmaci ed ha allucinazioni turistiche osservando borghesemente il frigorifero, è in un doloroso equilibrio sessuale che lo porta di sera a vagare nel parco, dove incontra Louis, e a cedere alle lusinghe del reazionario avv. Roy Cohn.
Questo terzo personaggio è basilare perché offre una reale (è un personaggio vero) rete di protezione e àncora di salvataggio politica: siamo nel 1985, l’America di Reagan che Roy ha collaborato a far nascere, come poi farà con Bush e con Trump. Insomma, un recidivo.
Queste tre storie si intrecciano ma soprattutto s’intrecciano tra loro vita, fantasia e memoria, facendo un tutt’uno, proprio come in “8 e mezzo” di Fellini. Così arriva in scena evocata da Cohn che l’ha fatta giustiziare, Ethel Rosenberg, accusata di essere spia del russi (morì nel 1953, epoca del sen. Mc Carthy grande amico complice di Roy); ed infine appare l’angelo non sterminatore ma rappacificatore.
Tanto che Prior, destinato a morire, viene salvato all’ultimo, dopo un assaggio dell’al di là, per splendide ragioni teatrali (come Mackie Messer nel finale dell’Opera da tre soldi) e potrà farci un discorso di fine millennio che oggi più di ieri e meno di domani fa venire le lacrime agli occhi. Inizio e fine sono in stile Yiddish – alla Singer se avesse scritto per il teatro, ma anche alla Philip Roth, un mix perfetto – e le fedi religiose sono il collante del testo già ridotto in film tv da Mike Nichols: al centro l’ebraismo che hanno il record del senso di colpa, ma si parla molto dei meno noti mormoni con i loro sensi del peccato (non era ancora uscito il famoso musical Book of mormon).
Ma il ceppo di cui si parla è quello gay. Nonostante le catastrofi avvenute e previste, Angels resiste a credere nella speranza anche se l’America, si dice, non ha angeli degni di questo nome, perché ha una storia diversa e più prosaica, non ha i dipinti di Madonne coi bambini.
Kushner avverte che, rispetto al concetto della giustizia che è chiaro, quello dell’amore è invece molto ambiguo e permette scorciatoie di ogni tipo che finiscono sulle spalle di mogli e madri in costante affanno o decise a non riconoscere la verità. Angels è diviso in due spettacoli distinti (Si avvicina il millennio in scena questa settimana e Perestroika la prossima) che saranno recitati a scadenza settimanale fino al 24 novembre a parte due maratone che sicuramente meritano le molte ore richieste (il 10 novembre con inizio alle 11 del mattino, il 17 dalle 15 in poi), Angels è uno spettacolo bellissimo, sconvolgente, imperdibile; e non rinuncia anche a momenti di humour, merito dello spirito ebraico che, com’è noto, è sopravvissuto grazie a questo.
Ecco il personaggio folk dell’infermiere che con le sue mossette ci riporta a un gay ancien régime da Vizietto, anche se ha i suoi principi democratici saldi, ed ecco invece Cohn che non vuole ammettere di fronte al mondo la sua natura e morirà senza riappacificarsi.
La regia di Bruni e De Capitani è sostanzialmente quella del primo spettacolo, ma così viva, giusta, perfetta in ogni particolare, con slanci emotivi, compulsioni e cadenzati passi di ragionamento, bilanciatissima nel dare avere etico di ogni personaggio, che il testo si snoda narrativamente in modo esemplare.
E sono strepitosi i video di Francesco Frongia che ci raccontano, con totale libertà di immaginazione visiva, le realtà americane gli interni e gli esterni, ma soprattutto l’America ampia delle libertà incrociate, del miscuglio di razze e dell’incrocio di fedi, unico paese che davvero accoglie (lasciamo stare la politica estera di oggi).
Gli attori, in un cast per metà mutato, sono bravissimi, si tengono su un diapason emotivo forte, ti colpiscono al cuore e al cervello senza annunciare la direzione dei colpi, un ensemble che merita ogni plauso e premio: alla prima di sabato scorso, vero evento, gli applausi sono stati interminabili, convinti, commossi.
Angelo di Genio, alla prova più matura e sofferta della sua bella carriera, è straordinario nell’essere vittima del virus ma anche padrone di una visione generale del mondo, ed alterna di continuo i due lati dimostrando una complicità col pubblico che non sfora nel melodrammatico.
Siamo dentro a una Divina Commedia dei nostri giorni in cui nulla è perduto per sempre: c’è, dice Kushner, un doloroso progresso, nostalgia per quello che abbiamo lasciato indietro e il sogno del futuro di un mondo che avanza. Tutto questo c’è negli occhi di Di Genio.
Ma, ripeto, sono tutti eccezionali: Giusto Cucchiarini, che sembra brillante e felice ma coltiva il suo dubbio esistenzial sessuale; la Crippa e la Marinelli in varie parti cui accedono con grinta e sofferenza, Umberto Petranca che vive le contraddizioni della vigliaccheria medica, Sara Borsarelli che apre le ali nere e raccoglie tutta la platea sotto il suo manto e le macerie, Giulia Viana che promuove lo psicofarmaco anni 80 e si dibatte tra la realtà e fantasie e allucinazioni, Alessandro Lussiana che fa il gay vintage con spirito e difende la causa dei neri.
E poi De Capitani che azzanna il suo crudele personaggio di avvocato repubblicano fino al midollo e non lo lascia solo un attimo, gli sta addosso, digrigna i denti con lui, soffre con lui, violenta noi con le sue parole: un ruolo per lui, insostituibile.
Aggiungo che “Angels” è tornato in scena anche a Londra e a New York a dimostrazione della sua universalità, eternità, perché le sue parole ci guardano negli occhi senza paura e si lotta insieme nel melting pot della cultura americana nel cui divenire l’azione si svolge.
FOTO © LAILA POZZO