Cate Blanchett (protagonista) e Todd Field (regista del film) hanno dichiarato che il primo movimento della Quinta di Mahler (una marcia funebre) è un presagio della morte artistica di Lydia Tár. E non si tratta solo di un espediente ma di una costruzione narrativa che definisce il ritratto sonoro della direttrice d’orchestra e della sua caduta
Si contano sulle dita di una mano i film in cui si parla di classica con cognizione di causa, senza cascare in banalità, goffaggini o errori grossolani. Schivando con cura i biopic sui compositori, tra i meglio riusciti in tempi relativamente recenti vengono in mente Una fragile armonia (molto meglio il titolo originale A Late Quartet), del 2012, con Philip Seymour Hoffman e Christopher Walken, su un quartetto d’archi alle prese con l’esordio di Parkinson del violoncello, e Quartet, sempre del 2012, con Maggie Smith, ambientato in una casa di riposo per musicisti in cui quattro cantanti decidono di riunirsi un’ultima volta per cantare “Bella figlia dell’amore”.
Tár di Todd Field, in questo senso, è un film di un’altra categoria. La sceneggiatura, scritta dal regista con la consulenza del direttore d’orchestra John Mauceri, è accurata non solo per i contenuti strettamente musicali, ma anche per le relazioni di potere descritte, le convenzioni, il gossip, in breve per la “politica musicale” che si respira tra le mura dell’istituzione berlinese in cui il film è ambientato, mai nominata ma chiaramente riferibile ai Berliner Philharmoniker.
La direttrice d’orchestra Lydia Tár, che Cate Blanchett rende con tale forza e intensità che finisce per sembrare una figura reale di cui abbiamo letto tutti sui giornali, è arrivata ai vertici della più importante orchestra del mondo. Ma questo è solo il punto di partenza: il film parla in realtà della sua caduta, non della sua ascesa, come sottolineato da Marina Visentin nella recensione uscita su Cultweek nei giorni scorsi. Caduta dovuta a un caso di abuso sottilmente indagato durante le oltre due ore e mezza di film, con gli indizi che emergono a poco a poco come in un thriller.
Scelta coraggiosa, quella di attribuire a una donna abusi simili ai tanti di cui sono stati accusati molti importanti direttori d’orchestra – nel film si citano esplicitamente i casi di James Levine e Charles Dutoit –, ma anche criticabile, come in effetti hanno fatto in molti, a partire dalla direttrice d’orchestra Marin Alsop, a cui gli autori del film non possono non aver pensato quando hanno costruito a tavolino la biografia di Tár: gli studi con Leonard Bernstein, la creazione di un’istituzione per promuovere giovani direttrici, il matrimonio con una orchestrale… la direttrice americana ha dichiarato che il film l’ha offesa “come donna, come musicista, come lesbica”.
Molte delle stroncature del film, peraltro accolto molto bene dalla critica americana, si sono soffermate sull’opportunità di ritrarre in questo modo una direttrice d’orchestra, tenuto conto dello scarsissimo numero di donne che ricoprono posizioni di rilievo nel mondo musicale. Richard Brody sul New Yorker arriva addirittura a parlare di Tár come di un film reazionario, scrivendo che “è un utile promemoria della connessione tra idee regressive ed estetica regressiva” dal momento che, secondo il critico, la protagonista viene presentata come vittima. Affermazione non così condivisibile, anche se è innegabile una certa ambiguità del film, da una parte perché è inevitabile empatizzare con la protagonista (specie se è Cate Blanchett che la interpreta), dall’altra per l’evasività del messaggio quando si tratta di trarre delle conclusioni. Va detto però che, se si fosse trattato del solito direttore despota coinvolto in un caso #MeToo, sarebbe stato impossibile evitare i cliché e il film avrebbe perso di efficacia.
Da antologia la scena della masterclass alla Julliard, con lo studente “Bipoc pangender” che non vuole suonare Bach in quanto rappresentante di un mondo patriarcale. Tár reagisce chiedendogli con quali criteri vorrà essere valutato in futuro come direttore d’orchestra, tenuto conto che, per servire un compositore, “devi sublimare te stesso, il tuo ego. E sì, la tua identità”. La risposta è tanto semplice quanto illuminante, ma soprattutto argomentata. Perché questo non è un film reazionario che si ferma alla litania conservatrice “non si può più dire niente”, ma allo stesso tempo è critico verso l’ipersuscettibilità woke. Memorabile il commento di Tár al ragazzo: “Non essere così bramoso di sentirti offeso”. Un colpo al cerchio e uno alla botte? No, solo capacità di scrittura.
Per quanto riguarda la musica, fin dall’intervista iniziale di Tár con Adam Gopnik del New Yorker, scopriamo che la direttrice intende completare l’integrale delle nove sinfonie di Mahler (ce ne sarebbe una decima, incompiuta) dirigendo l’ultima che le manca: la Quinta. Non è una scelta casuale. Sia Cate Blanchett sia Todd Field hanno spiegato che la struttura della Quinta di Mahler ricorda in qualche modo il percorso di Lydia Tár: il primo movimento della sinfonia, una marcia funebre, è un presagio della morte artistica a cui la protagonista sta andando incontro, e a cui seguirà una rinascita, forse.
Non è una sorpresa che sia grazie al celebre Adagietto se si fa qualche passo in più nel mondo interpretativo della direttrice. Mentre sta componendo la Quinta, spiega Tár, Mahler incontra e sposa Alma, e questo quarto movimento diventa quindi la sua lettera d’amore alla moglie. Ma a conferma della molteplicità di sensi e significati della musica di Mahler, spesso contraddittori tra loro (“sempre un attributo e il suo contrario” diceva Bernstein), l’Adagietto è stato accostato anche ad altri contesti, ad esempio quando Bernstein l’ha diretto al funerale di Robert Kennedy nel 1968, trasformandolo in un simbolo musicale del lutto. Tár vuole invece ridare a questa pagina la freschezza con cui era stata concepita. Durante le prove interrompe l’esecuzione e chiede ai professori d’orchestra di dimenticare Visconti, rendendo felici i cinefili in sala: “Meno languore!” dice, riferendosi alle sequenze di Morte a Venezia in cui Visconti ha trasformato il brano in un manifesto del decadentismo.
Ma non c’è solo Mahler. Il brano scelto da Tár per accompagnare la sinfonia è il Concerto per violoncello di Elgar. Scavalcando irritualmente le prime parti della sezione, la direttrice seleziona come solista una giovane violoncellista russa di cui si è infatuata, interpretata da Sophie Kauer, musicista oltre che attrice (nel film è lei che suona). Detto che una serata Elgar-Mahler rischia di essere un po’ indigesta quanto a enfasi – torna in mente il detto di Mariss Jansons che non bisogna mai aggiungere dello zucchero al miele –, forse la scelta si deve al desiderio di accostare la violoncellista a Jacqueline du Pré, vera artefice del successo di questo Concerto negli anni Sessanta, ricordata nel film come ispiratrice della giovane, che ha guardato su YouTube il video dell’esibizione della magnetica e sfortunata musicista diretta da Daniel Barenboim.
Man mano che i minuti passano ci si accorge che c’è qualcosa di distorto nella musica che lo spettatore ascolta: la sontuosità di Mahler e di Elgar si intreccia sempre di più alla spigolosa e inquietante colonna sonora della compositrice islandese Hildur Guðnadóttir, che sembra riprendere le esperienze atonali degli horror anni Cinquanta. Ma in questo caso non si tratta solo di effetti, bensì di una attentissima costruzione narrativa che finisce per diventare un ritratto sonoro della protagonista e della sua caduta. In molte scene i suoni di accompagnamento entrano nel racconto – tecnicamente si dice che diventano diegetici –, intensificando la misfonia della protagonista, ovvero la sua ipersensibilità ai rumori che si fa vera e propria repulsione quando la sua vita sta per precipitare.
In un articolo di Eileen Jones pubblicato da Jacobin e ripreso da Internazionale, molto critico sull’intellettualismo del film, l’argomento per dare la stoccata finale è: “Tutto il film è girato, ed è un fatto che confonde, attraverso la visione del mondo di Lydia”. Forse è proprio questo l’aspetto più interessante del film, ciò che lo rende un vero atto di virtuosismo, al di là dell’accuratezza dei discorsi musicali e dell’abilità con cui affronta temi di attualità. Tár non è un semplice sfoggio di erudizione, cinema d’autore apprezzato da chi sulle mensole di casa ha solo libri Adelphi e cd Deutsche Grammophon – gli intellò o meglio, dato che si parlava di Bernstein, i “radical chic”. Tár è un’inquietante partitura visivo-musicale che, senza che ce ne si accorga, si identifica con la protagonista e la spinge verso la sua cancellazione, lasciando a noi il compito di riemergere da quell’abisso morale avendo capito che le cose sono sempre più sfumate di quel che sembra.