Dieci anni dopo la laurea, un gruppo di amici e amiche si ritrova per un viaggio nel sud dell’Italia. Un guasto li costringe ospiti di un lussuoso albergo, nel quale conoscono Raúl, un viaggiatore che sembra sapere troppo di ognuno di loro.
André Aciman ripercorre, e fa suo, il mito di Orfeo ed Euridice in un romanzo breve in cui mistero, trascendenza e leggerezza si fondono. Con olimpico sorriso.
Continueremo a mancarci.
In due soli verbi, giustapposti e di contrarie direzioni, André Aciman evoca in tutta la sua sproporzione la dissonanza emotiva nella quale è il destino di ogni passione umana.
Struggimento e desiderio non nascono altro che da questa discrasia: l’impossibile coincidenza tra l’essere esposti ad un sentimento infinito nella finitudine del tempo che ci è dato.
E poiché nulla c’è di più intimo e, in fondo, misterioso dell’amore, legittimo è (anche per un autore che ha abituato i suoi lettori a misurarsi con gli aspetti più celati della realtà) spingersi in territori nei quali non è la razionalità il sistema di riferimento, bensì l’assoluto – o, meglio ancora, il desiderio di assoluto.
L’ultima estate, pubblicato da Guanda, è dunque, volutamente, un romanzo che punta il suo sguardo verso l’inesplicabile, e per farlo usa l’evocazione, il déjà-vu, i ricordi, le coincidenze, le tracce che abbandoniamo nel mondo nella nostra impermanenza.
Non tutto è razionalizzabile quando si ha a che fare con sentimenti infiniti, ammonisce l’autore: e così gli otto ragazzi che si ritrovano, dieci anni dopo la laurea, a condividere una vacanza in Italia ricostruiscono una sorta di società ideale, alla maniera della allegra brigata di Boccaccio; ma, contrariamente al Decameron, la bellezza dei luoghi (un albergo lussuoso, il mare, la natura sensuale e dionisiaca della costiera amalfitana) non è un rifugio ma un incaglio, e la parola che racconta (quella dell’ospite inatteso, un uomo che magnetizza l’attenzione di ciascuno in modo diverso, e di tutti conosce troppo) non lenisce affanni e paure – bensì apre inquietudini e ombre:
Qualsiasi fisico ve lo potrebbe confermare, tra un salto spaziotemporale e l’altro si creano delle aperture, non più spesse di un foglio di carta velina. Quando queste fessure si richiudono, bisogna aspettare generazioni, secoli, magari millenni per avere un’altra opportunità.
Al tempo come luogo nel quale ogni cosa (atto e potenza) resta eternamente limitrofa e possibile, dove le anime che si cercano possono trovare il lembo di sguardo nel quale incrociarsi si rivolge dunque L’ultima estate: i precedenti illustri (Aurora e Titone; Tristano e Isotta; Romeo e Giulietta; Paolo e Francesca, solo per dirne alcuni) non mancano di certo.
Ma forse è più giusto dire che, di tutte le possibili partiture mitologiche, questo nuovo lavoro di Aciman, che del mito è profondamente debitore, risente in modo maggiore di una suggestione orfica.
Non si può non sentire riecheggiare in Raúl, l’uomo che viaggia e parla, lo straniero che seduce e incanta, l’anima inappagata di Orfeo, alla perenne ricerca della sua Euridice perduta.
E però non è, questa, una semplice riproposizione di un tema noto: Aciman rivive il mito, e lo fa – se possibile – continuare.
Così la natura dionisiaca nella quale la barca dei giovani americani si arena, a dispetto di tutte le apparenze, si rivela, nelle parole del loro ospite, per la sua dimensione ctonia; sono, quelli, i luoghi dell’origine, dell’inizio e della fine, i Lugentes Campi, percorsi da memorie inquiete e luttuose: la Sibilla, Ecate, Miseno, Proserpina. Tutte storie caratterizzate dal ratto, sulle quali l’oscura e repentina ombra degli Inferi eclissa vite e destini.
Il dolore è memoria e impronta, ma è temperato dalla sua stessa persistenza, ed è – sembra dire Aciman – nella natura stessa delle cose: sulle quali splende, congrua e imperscrutabile, la luce apollinea del Mediterraneo.
E se non fossimo altro che un infinito gioco delle tre carte fatto di io nascosti continuamente mischiati? Noi siamo trafficanti di io ombra. L’io vecchio, l’io nuovo, l’io ombra, l’io numero sette o numero undici, l’io che abbiamo sempre saputo di essere ma non siamo mai diventati, l’io che abbiamo lasciato indietro e non abbiamo mai recuperato, l’io che sarebbe potuto essere ma che non è mai stato e però potrebbe ancora essere, anche se temiamo e al contempo speriamo possa arrivare e liberarci dalla persona che siamo stati obbligati a essere in tutti questi anni. (…) Non è solo il passato a perseguitarci. Con eguale forza ci perseguita ciò che ancora non è successo, perché ad aspettare dietro le quinte ci sono anche io ombra e vite ombra. Non facciamo che ricostruire e reinventare sia il passato sia il futuro.
La storia di un amore che non vuole dissolversi con la morte asincrona dei suoi protagonisti, ma che continua nel proprio desiderio di ricomposizione nonostante il tempo e lo spazio, sfidando l’eternità, potrebbe facilmente accarezzare le corde della tragedia.
Quello che André Aciman costruisce è invece un piccolo miracolo di leggerezza e di intensità:
Dietro il vostro amore oggi ci sono vite intere di incontri mancati e conoscenze occasionali
Dunque, se, per dirla con Dante, è stato un tempo in cui ciascuno fu il tutto per l’altro, la memoria dell’unità spezzata sarà, nell’eterno ritorno, una dannazione ricorrente nella vita degli uomini, che di quella originaria unità si sentiranno orbati per mancanza e per necessità.
Proprio da quel vuoto da colmare (altro tema, che dal Simposio di Platone prende origine, caro all’autore) serve prendere lezione: non nell’angoscia, ma nella difficile arte del riconoscere la felicità quando ci si presenta dinanzi.
Già in Chiamami col tuo nome, il romanzo che ha dato ad Aciman la giusta fama, si può riconoscere il primo movimento di questo pensiero.
Sono, le parole pronunciate dal padre di Elio in un discorso che potrebbe farlo ascrivere come un ideale ottavo ospite del Simposio, già perfettamente allineate:
Rinunciamo a tanto di noi per guarire più in fretta del dovuto, che finiamo in bancarotta a trent’anni, e ogni volta che ricominciamo con una persona nuova abbiamo meno da offrire. Ma non provare niente per non rischiare di provare qualcosa… che spreco!
Così L’ultima estate appare, in filigrana, come una risposta a quel romanzo: dove in Chiamami col tuo nome premesse non ambigue agivano sui protagonisti inquietudini sospese, qui, al contrario, l’impianto, per sua stessa natura misterioso e inattingibile, sfocia in una sorta di superiore pacificazione.
Nulla viene spiegato, ma il senso di una maggiore comprensione è forse il migliore congedo che il romanzo affida ai suoi lettori.