Adrea Bowers è un americano che cita Che Guevara, e consegna all’arte una profonda riflessione politica sullo stato delle minoranza etniche nel Nordamerica.
Tutto è politica, niente è politica. Negli ultimi anni la disaffezione verso questa parola, oltre a un sollecito invito ad andare al solito paese, tradotto in imprecazione scagliata da piazze urlanti, ha ingenerato tra i cittadini la convinzione che il tempo per la politica sia scaduto. Eppure, con buona pace dei profeti del qualunquismo, nella quotidianità di ogni giorno si compiono delle scelte dalla forte connotazione politica: anche solo guardare la televisione, leggere un giornale, decidere un film, trascorrere una domenica alla certosa di Pavia oppure al centro commerciale di Pavia, o ancora semplicemente comprare una tavoletta di cioccolato piuttosto che un’ altra; piccole o grandi scelte pur sempre politiche.
E allora quanti trovano il coraggio di consegnare queste scelte alla prova dei fatti? Quanti rivendicano la paternità delle proprie idee senza cadere nella penombra del “così fan tutti”? E infine, quanti sottopongono l’interlocutore alla riflessione del giudizio? Purtroppo, molti franano nel sempre divertente e becero populismo ora da telegiornale e non più da osteria, perché lì qualcosa da dire c’è ancora. Tanti altri sentono il bisogno di giustificarsi – che raccapriccio – , la maggior parte infine si sbraccia cambiando strada “via via! Qui ci chiedono cosa pensiamo!”.
Non cambia strada Andrea Bowers (1965) che qui a Milano espone in corso di Porta Tenaglia 7, dove la sofisticata Galleria Kauffmann Repetto si prende il merito di mostrare il lavoro di questo artista statunitense dalle intenzioni molto nette: rivendicare il diritto all’auto-deteminazione delle minoranze ancora schiacciate e violentate dalla cultura colonialista, sempre viva in numerosi paesi del mondo.
L’artista, nato a Wilmingston ma che vive e lavora a Los Angeles, ci tira per la giacchetta ricordando che lo squilibrio di potere tra culture colonizzate ed ex colonizzatori è tutt’ora presente; tutt’ora presente è lo stato di subalternità socio-economica in cui versano i discendenti di quei popoli che furono colonizzati, soprattutto nel nord America.
Bowers denuncia questo sordo dolore facendo gridare le minoranze stesse, la loro protesta, il loro disagio composto da volti, parole, gesti, ma anche tanti sorrisi; consegnando l’anima e il corpo dei suoi interpreti all’alfabeto dell’arte. Ne esce un dolce e amaro racconto di dignità in un’opera silenziosa. Nei due grandi ambienti rettangolari della galleria, una costellazione di immagini, fotografie, disegni, articoli di giornale documentano la lotta politica di movimenti e attivisti impegnati su più fronti, dal sostegno al diritto di emigrazione, alla condanna alle ingiuste politiche di confine adottate dagli Stati Uniti.
C’è anche una citazione di Che Guevara che fa da sfondo alla mostra: «Anche a costo di sembrare ridicolo, il vero rivoluzionario è sempre guidato da sentimenti d’amore». In una lettera al fratello Delacroix scriveva «se non ho combattuto per la patria, almeno dipingerò per essa…». La Libertà tutta americana che guida il popolo pare avere oggi un nome e cognome: Andrea Bowers.
“Andrea Bowers. Self-determination”, Galleria Kauffmann Repetto.
Foto: Andrea Bowers, Papillon Monarque (Migration is Beautiful), 2014.