Il balletto è uno dei protagonisti dell’Opera che domani sera debutta alla Scala: regia di Mario Martone, sul podio Riccardo Chailly. Conversazione con Daniela Schiavone, coreografa dello spettacolo
Il ballo all’Opera “ è la cosa più indecente che si possa vedere” commenta Giuseppe Verdi con la contessa Morosini nel 1847. Eppure, quando compone per l’Opera di Parigi, il balletto compare immancabilmente al terzo atto di ogni sua partitura. Il divertissement danzato era richiesto dal management del grande teatro parigino e, con obbedienza, Verdi si concentrava sulla musica da ballo, trasformando quel divertissement in un potente strumento teatrale che permetteva ai personaggi di raccontare a ritmo di danza, vicissitudini e destini.
Contemporaneamente, in Italia, la pensavano tutti come Verdi, il balletto era un corpo estraneo all’Opera, e lo era per i compositori e per i manager teatrali. Ma non per Umberto Giordano e Luigi Illica che nell’Andrea Chénier usano il linguaggio della danza con un intento fortemente iconografico.
Daniela Schiavone ha curato le coreografie dell’edizione scaligera che debutta il 7 dicembre al Piermarini.
Si parla di un grande ritorno del balletto nell’opera lirica, da quanto tempo mancava e perché?
Nel caso dell’Andrea Chénier c’è la voglia di aderire a quella moda francese del fare opera, Giordano inserisce la danza sia delle Pastorelle che la Gavotta, come testimonianza storica, per rappresentare quel mondo estetico.
Il pezzo delle Pastorelle così si chiama, è un tipico intervento settecentesco, un quadro bucolico in uso nei palazzi della nobiltà. La danza era molto in voga nelle corti francesi. Luigi XIV amava esibirsi in prima persona tanto che fu chiamato Re Sole per essersi esibito come “sole nascente” nel Ballet Royal du jour et de la nuit del 1653 su musica di Gianbattista Lulli. Qui, nell’Andrea Chénier, sono passati quasi 100 anni e siamo nel 1789. L’opera si apre con i preparativi e poi con una grande festa nel giardino d’inverno del castello della contessa di Coigny. All’inizio della festa l’arrivo dell’abate con le sue notizie da Parigi incupisce l’atmosfera. Nasce il Terzo Stato e la statua di Enrico IV è stata oltraggiata. Fleville, scrittore emerito che presenta Chénier come un poeta promettente, vuole risollevare gli animi e introduce la danza delle pastorelle. E’ un intervento di tre minuti e come dice Fleville presentandolo: “un soave bisbiglio, è zefiro, è fruscio d’ali…”
Quali sono stati i riferimenti estetici e storici di cui ti sei servita per costruire la coreografia?
La musica inizialmente mi aveva messo in crisi. Una sorta di adagio ripetitivo privo di accenti interessanti. E continuavo a chiedermi perché Giordano avesse deciso di inserire un quadro così nonostante comprendessi l’idea di rappresentare quel mondo. Poi ho posto l’attenzione al testo.
« Oh pastorelle addio addio addio» è ripetuto innumerevoli volte.
«Ci avviamo verso lidi ignoti e strani!»
«Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!…»
Il salone delle danze della contessa che ospita il balletto tra pochi istanti verrà invaso dal popolo della rivoluzione. Tutto è ormai tragicamente perso, appartiene al passato, e il futuro si annuncia “strano”. Una musica soave e un testo inquieto. E anche ambiguo e sensuale. Ho immaginato una sorta di fissità di sospensione del tempo. L’elemento leggerezza a volte si interrompe per brevissimi istanti e i danzatori diventano statue per poi riprendere a danzare. Alla fine hanno uno sguardo fisso, corpi non più abitati ma che continuano a muoversi.
L’Andrea Chénier riporta il corpo di ballo della Scala alla grande prima di Sant’Ambrogio, da quanto tempo mancava e qual è il suo ruolo nell’Opera?
Il corpo di ballo della Scala mancava nell’Opera di inaugurazione da 11 anni. Sono molto lusingata di essere la coreografa che finalmente, anche se solo con tre coppie, riporta il balletto il 7 dicembre. Stiamo parlando di un corpo di ballo che ha fatto la storia della danza e mi sento onorata di avere lavorato con loro. Hanno realizzato pienamente il mio intento di rendere questa danza leggera e sospesa, e sono stati disponibili ad aprirsi a una contaminazione, diciamo teatrale, come è nel mio stile.
Alle pastorelle seguirà poi una gavotta, una danza tipicamente francese, ballata da tutti gli invitati e dalla stessa Contessa e, nel nostro caso, è tutto il coro a ballarla.
Ho quindi lavorato anche con il coro del Teatro. Bravissimi tutti.
La gavotta verrà interrotta dalla celebre frase del servitore Gerard che decide di schierarsi con i rivoluzionari al grido “Sua grandezza la miseria!” e verrà poi ripresa in un disperato tentativo della Contessa di ignorare quello che ormai inesorabilmente si sta facendo largo.
Nel III Atto c’è un altro piccolo intervento La carmagnola una danza popolare fatta questa volta con i mimi.
Qui non ho usato i passi dalla carmagnola ma ho voluto invece rappresentare uno stato d’animo che questa volta è del popolo.
Appaiono e scompaiono dietro una parete dei corpi festosi con fazzoletti tricolori nel vento, con il quadro finale di una donna avvolta nella bandiera della rivoluzione.
Che relazione hai immaginato tra la danza e l’Andrea Chénier diretto da Mario Martone?
Lavoriamo insieme da molti anni e come è già accaduto non ci siamo detti molto ma “ misteriosamente” siamo andati nella stessa direzione.
La tua formazione inizia proprio dalla danza classica. Andrea Chénier a parte, quale pensi debba essere il contributo di una coreografa all’opera lirica.
La danza intesa come balletto ha spesso fatto parte dell’opera. Gli autori scrivevano all’interno dell’opera parti dedicate alle danze o al balletto.
Da anni capita che i registi vogliano esprimere attraverso il movimento coreografico anche qualcosa che aggiunge un piano di lettura altro. Come movimento coreografico intendo anche il lavoro con il coro, i mimi e i cantanti. E quindi, nell’opera la musica, il canto, il teatro e la danza e il movimento si integrano in unico pensiero.
Da anni mi occupo di questo tipo di intervento coreografico e la mia visione di regista mi permette di vedere la danza come un linguaggio utile e indispensabile del racconto complessivo teatrale.
Riassumi in tre parole le qualità e le caratteristiche dell’Andrea Chénier che ci aspetta il 7 dicembre.
Cinematografico: gli atti si susseguono senza soluzione di continuità, e la visione stessa è su piani differenti. Moderno: nella lettura filologica vi è in realtà una forte visione moderna.
Stupefacente e commovente: mi piace pensare che lo spettatore come me ogni volta rimanga piacevolmente stupito e commosso!
Venerdì 8 dicembre la recensione di Cultweek