Un’interpretazione fresca e disincantata quella deI clarinettista Andreas Ottensamer, alle prese con le “connessioni” folkloristiche del severo compositore tedesco
Come tra persone che condividono un segreto un po’ comico, chiunque scopra Brahms con le sue Danze ungheresi manterrà sempre un occhio disincantato per il rigoroso compositore tedesco.
Brahms, il serioso Brahms, condannato dal critico – nonché suo principale sostenitore – Hanslick al titolo di “principe della forma”, scapolo, conservatore e abitudinario era tuttavia capace di un’ironia irresistibile. È l’ironia delle sue Danze ungheresi, con cui sarebbe opportuno rileggere tutti i suoi capolavori: forse lui per primo avrebbe preferito farsi prendere meno sul serio.
Un’idea simile l’ha avuta il venticinquenne austriaco – ma di origini ungheresi – Andreas Ottensamer, primo clarinetto dei Berliner Philarmoniker. Nel CD The Hungarian Connection, accostando prima e settima danza ungherese all’osannato, raffinatissimo Quintetto per clarinetto op. 115, Ottensamer e compagni aprono la via per un’interpretazione molto più fresca del brano, opportuna a mio avviso per l’intero repertorio del compositore.
Nel clarinetto di Ottensamer si sente tutto il Gershwin del suo album di debutto: dinamiche decise, ritmi incalzanti e sensualità negli attacchi.
Nei cantabili del primo movimento non lesina certo sugli abbandoni, ma lo fa sempre con gusto, senza cedere mai ad alcuna retorica. Quanto alla cupezza tematica del secondo movimento, questa viene sorprendentemente stemperata anche nei suoi passaggi più accigliati: il risultato è un languido procedere che mi pare inedito per questa pagina. L’Andantino e il finale Con moto sono gustosissimi per le prodezze di tutto l’ensemble e in particolare per le liquide agilità del clarinettista. Il ritorno del tema dell’Allegro iniziale chiude infine il cerchio del Quintetto, che si prepara al suggestivo forte per l’accordo finale di Si minore seguito da un difficilissimo diminuendo.
A introdurre le due Danze ungheresi stanno due Valzer in La maggiore (op. 39 no. 15 e op. 52 no. 6), che ci accompagnano servizievolmente, quasi in livrea, alle sonorità più aggressive di queste trascrizioni originariamente scritte per un salottiero pianoforte a quattro mani.
E difatti non c’è molto di scientifico nella ricerca etnomusicologica di Brahms. Siamo poco al di là della curiosità folkloristica, ancora in pieno territorio occidentale. Eppure quanta sincerità, quanta vitalità e quanta abilità quasi drammatica – in un compositore che per di più non ha mai fatto teatro musicale!
L’album termina con due lavori dell’ungherese Leó Weiner e con un curioso mash-up di danze tradizionali della Transilvania. Anche Weiner, decenni dopo Brahms, cascò nelle suggestioni della musica popolare senza però la scientificità – ormai dovuta – dei suoi contemporanei Bartók e Kodály. Da segnalare il fatto che tutti gli arrangiamenti, eccetto ovviamente il Quintetto op. 115, sono del magnifico violinista Stephan Koncz.
Andreas Ottensamer, The Hungarian Connection (Deutsche Grammophon)