Alta temperatura drammatica, violente variazioni dinamiche, indiscusso rigore caratterizzano l’esecuzione delle Toccate bachiane della grande pianista canadese sentita al Conservatorio
La Sala Verdi del Conservatorio è gremita per l’occasione ma non c’è da sorprendersi: per il secondo appuntamento della serie «Il Genio è Donna» è pronta ad esibirsi una delle pianiste più sorprendenti del nostro tempo. Riconosciuta all’unanimità come una delle interpreti di riferimento delle opere di J. S. Bach al pianoforte, Angela Hewitt ha inciso per la Hyperion esecuzioni che sono già entrate nel firmamento discografico come un Clavicembalo ben temperato che merita un posto di riguardo in ogni discoteca che si rispetti. Ma, a differenza degli anni passati – la pianista partecipa alle Serate Musicali dall’ormai lontano 2003, la stagione scorsa con le Variazioni Goldberg, altra perla recentemente incisa –, questa volta il programma merita una speciale attenzione: le toccate sono una parte del repertorio clavicembalistico bachiano relativamente poco conosciuta, soprattutto rispetto ai giganti sopra menzionati.
Quando ancora deve spegnersi l’applauso di benvenuto, la Hewitt attacca con impeto il virtuosistico inizio della Toccata in do minore. Sembra non riuscire a frenare l’entusiasmo. Anche il pubblico, rapito dai suoi gesti, non aspetta che le risonanze del pianoforte si spengano nel silenzio per lasciarsi andare all’entusiasmo, sperticandosi in meritatissimi applausi. Fin dalle prime note del brano risaltano le qualità della musicista d’eccezione. Particolarmente efficace è il soggetto in do minore della fuga, tanto penetrante da costituire la spina dorsale della composizione. Il tocco della Hewitt è capace delle legature più morbide così come degli staccati più pungenti e ciò si sposa magnificamente a ogni tipo di scrittura e di carattere richiesto da questa. Anche l’aspetto più virtuosistico dei brani, declinato in svariate scale e arpeggi, che apre o spezza i recitativi declamati o i fugati, è suonato con tale gusto e gioia da rendere questi elementi pregni di significato, necessari.
Proprio questi recitativi sono la cosa più bella e sorprendente che si impara dalla Hewitt: la loro magica atmosfera, così vicina alla drammatizzazione, avvicina alle grandi Passioni del compositore. Che le fughe siano meravigliose e affascinanti potrebbe sembrare lapalissiano, ma che anche i recitativi possano assumere tanto fascino e avere un ruolo tanto importante nella composizione è meno scontato. Queste parti hanno un tempo generalmente più libero e meno scandito, senza un ritmo particolarmente percepibile o vera e propria melodia. Eppure, nella corposità degli accordi, nel canto che poche note assumono dalle mani della pianista, queste oasi musicali, momenti eccezionali che appaiono ad intervallare le imponenti fughe, sono benvenute alle nostre orecchie. Qui vengono in mente le grandi pagine di Frescobaldi e Buxtehude ed è difficile non immaginare quest’ultimo seduto al cembalo intento ad improvvisare queste concatenazioni di accordi, queste magie armoniche, che sembrano scardinare ogni regola compositiva per abbandonarsi all’estro dell’invenzione.
La libertà delle parti non fugate è messa in evidenza dalla Hewitt attraverso una naturale cantabilità e un intimo lirismo che si contrappongono con nitidezza a quelle compositivamente più severe. Si apprezzano così i contorni di queste proporzionate architetture musicali e l’impetuosità dell’improvvisazione assume lo stesso valore della razionalità barocca.
Sono tanti i momenti strabilianti di queste pagine. La Giga dalla toccata in sol minore ha un carattere febbrile, un incedere imperterrito in cui il soggetto si impone e la forte temperatura drammatica è accentuata dalle violente variazioni dinamiche. In questa fuga, come in tutti i momenti in cui la scrittura si fa contrappuntistica, si possono ben percepire le singole voci e di conseguenza la struttura del brano, ma non si tratta di puro esercizio di tecnica. La differenza con altri pianisti (viene in mente il collega e compagno delle Serate Musicali, Sir András Schiff) è che nella Hewitt il rigore non comporta freddezza esecutiva.
La pianista si prende volentieri la responsabilità di mettere in risalto questa o quella voce e così facendo si distingue da un semplice “buona esecuzione”, dandoci una lezione sul ruolo dell’interprete. La fuga della toccata in mi minore (tratta da una strumentale di Benedetto Marcello) snoda un’interminabile collana di semicrome rapide e legate che passano da una mano all’altra, da un registro all’altro e sulle quali ci si sente come in mezzo al mare, su una barca abbandonata alle onde. Non viene in mente di mettere in dubbio la legittimità del pianoforte per questo repertorio: il risultato è tale da convincere anche i più accaniti sostenitori delle esecuzioni filologiche. I giochi dinamici di cui è capace la Hewitt, specialmente resi nelle meravigliose progressioni di questa musica, lasciano pieno di meraviglia l’ascoltatore. Meraviglia che è anche suscitata dalle invenzioni armoniche tipiche del repertorio, dal carattere spesso improvvisativo e che risuona vibrante di energia dalle corde di questo strumento più che da altri.
Alla fine del concerto la sala si svuota lentamente e si rimane senza parole di fronte all’evidenza sorprendente di una musica che ci parla oggi con una forza e un’intensità disarmanti, impreviste: Angela Hewitt ha raccontato attraverso queste pagine immortali storie ancora inaudite, dandoci una sua idea di musica e di mondo. Il bis, Schafe können sicher weiden, è il giusto commiato, dolce come un addio, tratto da un suo memorabile CD Arrangement che contiene trascrizioni di passi celebri di Bach per pianoforte.