Nero, cattivo, distopico, morboso: “Genesi 3.0” di Angelo Calvisi è un romanzo quadripartito che non risparmia nulla all’immaginazione. Dominato da una tremenda figura paterna.
Se c’è una cosa di cui la letteratura abbonda, quella è sicuramente i pessimi padri.
Si va dall’Agamennone tragico che sacrifica la figlia, allo spaventevole padre di Kafka, dalla violenza psicologica che ha segnato la vita di Knausgard a quella ben più fisica di Jack Torrance. Ma la lista è lunga. Forse non è un caso se, in letteratura, i padri pessimi superano di gran numero quelli buoni (ovviamente, detto con l’unica fonte statistica dell’occhio e croce), se consideriamo le scuse del padre di Chris Offutt quando scopre che il figlio ha pubblicato un libro: “Scusami, non sapevo di averti dato un’infanzia così terribile da farti diventare uno scrittore”.
A questa lunga schiera di padri pessimi, si aggiunge quello del nuovo libro di Angelo Calvisi, Genesi, 3.0. Violento e privo di qualsiasi amore, il Polacco é un po’ il Padre Infame per eccellenza.
Genesi 3.0 segue la vita del Polacco e Simon (suo figlio), inizialmente, in una specie di bosco, e successivamente quando vengono trasferiti nella Capitale. Il mondo che descrive Calvisi é uno degli aspetti più suggestivi del romanzo. Genesi 3.0 è un libro strano, molto. È strano per l’ambientazione – mai veramente distopica, mai veramente fantasy, mai chiaramente futuribile o passatista; è strano per ciò che accade, è strano per il modo, naturalissimo, con cui Calvisi descrive ciò che accade. Ma questa stranezza rientra nelle sue intenzioni di apparire quasi come un testo altro, sospeso da qualche parte fra la fantascienza, il racconto di formazione e il testo religioso.
DIO PIANTO’ UN GIARDINO IN EDEN, A ORIENTE, E VI POSE L’UOMO
Che ci sia qualcosa di strano nel mondo di Simon e del Polacco appare piuttosto chiaro fin dall’inizio, quando Simon, voce narrante del romanzo, nota come il cortile abbia “forme sfuggenti e, a seconda della posizione in cui ti trovi, sembra un trapezio, un triangolo equilatero e – benché raramente – un dodecagono irregolare molto schiacciato”. Quest’aria allucinata, sospesa fra sogno e fiaba nerissima, viene amplificata ancora di più man mano che il ragazzo descrive il bosco, con il suo miscuglio impossibile di animali e piante inventate, come la “Vilitibus Cracchia, pianta delle liliacee i cui succhi maleodoranti conferiscono elasticità alla pelle degli eunuchi”.
Fin dalle prime pagine, quindi, Calvisi riesce a delineare un mondo lisergico, in cui realizziamo di essere completamente spersi e non possiamo far altro che affidarci alla narrazione di Simon. Non sono più le nostre regole. Questo vale sia per lo spazio che per il tempo. Il tempo di “Genesi 3.0” è un tempo schizzato, che accelera e rallenta totalmente arbitrariamente, ma soprattutto è un tempo non lineare, che si accartoccia su se stesso, come se fosse un nastro di moebius.
Se, quindi, l’ambiente in cui si muove Simon è un ambiente strano, febbricitante, quasi malaticcio, non sono da meno le persone che lo abitano. Quasi tutti gli individui che incontra il ragazzo, infatti, sono descritti con caratteristiche grottesche, apertamente ostili. Ci stanno lo spilungone allampanato, il corto e tozzo che ricorda un nano da combattimento, il focomelico, e così via. Un mondo per nulla accogliente, quasi visto attraverso qualche lente deformante. E forse è proprio così. Il narratore di Genesi 3.0 è Simon stesso. Quindi, proprio come indossa delle magliette la cui S stampata sopra riprende il suo stato d’animo del momento, allora è lecito pensare che il mondo, la realtà che viene raccontata, con il suo spazio-tempo deformato, sia non solo una realtà raccontata dal suo punto di vista, ma proprio una realtà che rende esteriore l’interiore. Ovvero, in Genesi 3.0, la costruzione del mondo è una costruzione espressionista, che di realistico, oggettivo, ha ben poco.
Questa mancanza di realismo si rispecchia anche nella profonda letterarietà del romanzo. Diviso in quattro parti, ogni parte sembra nutrirsi e risputare fuori una qualche forma letteraria particolare, in una sorta di progressione della letteratura. Ma questo senza mai risultare un gioco fine a se stesso o, peggio ancora, didascalico. È più un fatto di sensazioni, di pancia, che di cervello. Se, per esempio, la prima parte è una specie di giardino dell’Eden imbastardito, poi, passando attraverso una specie di racconto d’appendice ottocentesco e uno di quei romanzi novecenteschi ospedalieri, si arriva fino alla narrativa post-moderna, con delle venature a metà fra il messianico e l’apocalittico. Tutto questo da una parte rende ancora più assurda e onirica l’ambientazione, in costante mutamento, e, dall’altra, ci fa perdere ogni possibile appiglio razionale, lasciandoci completamente privi di difese in questa realtà violentissima e maleodorante. Proprio come Simon.
NA EINAI KALYTERO ANTHROPO AP TON PATERA TOU
Data questa corrispondenza fra stato interiore e mondo esteriore, allora non dovrebbe sorprendere particolarmente se Genesi 3.0 è anche una storia di formazione. Ovviamente, la storia di formazione più violenta e piuttosto perversa che potrebbe venirvi in mente.
Le quattro parti del romanzo rispecchiano un particolare momento della crescita di Simon: infanzia, adolescenza, quella roba strana fra adolescenza e età adulta e infine età adulta. A questo proposito, quindi, il tempo come nastro di moebius di Genesi 3.0 diventa vera e propria cifra esistenziale della nostra vita. Inoltre, in tutte queste quattro fasi è presenza tangibile il Polacco, la figura paterna. Il rapporto fra Simon e Polacco è violento, intriso di cattiveria. Il padre non mostra mai nemmeno lontanamente un briciolo d’amore verso il ragazzo. E per fortuna, almeno secondo Simon: “un gesto paterno che – non so spiegarne il motivo – mi terrorizza più di ogni suo scatto d’ira”.
Eppure Simon, nonostante il suo odio, nonostante il Polacco lo chiami soltanto costantemente con appellativi offensivi, mai per nome, cerca anche una qualche forma di apprezzamento, d’amore, da parte del padre. In certi momenti arriva addirittura a provare orgoglio per il padre. Calvisi riesce, quindi, a creare un rapporto ambivalente e complesso, mai pacificato, mai facile da digerire. Emblematico e devastante, sotto questo punto di vista, è la scena dello stupro, quando, con una violenza indicibile, esplode l’intera complessità del rapporto fra Simon e Polacco, fra necessità di liberarsi del padre per poter essere se stessi e impulso a compiacerlo, a renderlo orgoglioso di noi.
Ma, come si è detto, la struttura del romanzo è circolare: i figli diventano padri. Il 3.0 del titolo del romanzo si riferisce proprio a questo aspetto, alla terza generazione. Nella quarta parte, Simon, ormai diventato adulto, viene sempre più scambiato per suo padre. Sembra, quasi, che non solo ne sia sosia, ma quasi ontologicamente il sostituto. Che è un po’, da una parte, l’incubo di qualsiasi figlio: diventare il proprio padre. Non esistere di per sé, ma soltanto come sua copia. Figurarsi, poi, se il padre è come il Polacco, figura a dir poco spaventevole e priva di ogni umanità. Ecco, allora, in uno dei momenti più intimi e sinceri dell’intero romanzo, che Simon si imbatte in un altro uomo, e nel dialogo ci sta un augurio: “Io vorrei che non facessero a tuo figlio quello che hanno fatto a te”. Genesi 3.0 si chiude con una speranza, che in realtà è più una domanda, su quanto riusciremo a essere uomini migliori dei nostri padri, a non compiere i loro stessi errori.
PADRE PADRONE
Genesi 3.0 è un romanzo di formazione, fra le altre cose. Ma è anche un romanzo che rende esterno, concreto, materiale ciò che è interno, ideale, puro pensiero. Questo si riflette anche nella psicologia di Simon. La paura di essere castrati, la fase anale, il complesso di Edipo vengono resi fisicamente. Non sono più solo concetti psicologici, ma eventi che accadono. Come le sigarette che, ogni volta che Simon ne assaggia una, hanno un sapore differente in base al suo stato d’animo: la realtà si adatta al soggetto, perché, in fondo, è il soggetto a raccontarcela.
Questo discorso vale anche per il Polacco, in particolare per il ruolo di potere che ricopre il padre all’interno della nostra psicologia. Il padre è la prima forma d’autorità che incontriamo, quella che, immancabilmente, leghiamo all’ordine e alla sicurezza. Il Polacco, così, non è più soltanto una figura paterna controversa, ma diviene il Padre della Patria. Uno dei rari momenti in cui lo vediamo umano è quando piange cantando l’inno nazionale. Il potere, per come emerge da Genesi 3.0 è fondamentalmente definibile come la capacità che ha qualcuno di determinare l’identità di un’altra persona. Di privarla, cioè, della propria autoderminazione, fino a plasmarla nell’immagine che si ha di lei. Allora, nel momento in cui questo potere non è soltanto quello che caratterizza il rapporto fra padre e figlio, ma vero e proprio nocciolo all’interno delle relazioni umane e della società stessa, il romanzo diviene un romanzo non soltanto di formazione, ma anche politico. Nel momento, infatti, in cui Simon e Polacco abbandonano il bosco per andare nella Capitale, si inizia a intravedere una qualche forma astratta, ma dalle conseguenze concretissime, di Potere che regola la vita di ogni cittadino. Il Potere è capace di regolare ogni più piccolo aspetto dell’identità dell’individuo, proprio come il Polacco decide con quali appellativi chiamare Simon, negandogli il suo nome. Guardare il Polacco significa riuscire a guardare la concretizzazione di questo Potere astratto: violento, autoritario e asfissiante, privo di qualsiasi bontà.
Non solo: proprio come Simon, nel suo diventare adulto, cerca di comprendere se è possibile essere un uomo migliore del padre, così il Potere è apparentemente insidiato da moti violenti, sovversivi. “Gli Altri, i reietti che vivono nei vicoli della Capitale. Si annidano come la sporcizia e vogliono sovvertire l’andamento naturale della Storia”. Ma, in realtà, è tutta una messa in scena, tutta una grossa bugia del Potere stesso, per riuscire a rendersi ancora più forte. Come una fenice che si dà fuoco da sola, per poter essere ancora più forte. Ecco, allora, che insieme alla speranza di prima di poter essere migliori di nostro padre, di non commettere gli stessi errori, che Genesi 3.0 ci ricorda che, in fondo, nessuno riesce veramente a scappare dal proprio padre.