Lavoro come materia incandescente del racconto (che manca) di questi anni. Lavoro, baricentro ostinato della scrittura di Angelo Ferracuti
Nel 2001 cominciai a riflettere sul fatto che, nella società dello spettacolo e del reality, la fiction era omologata allo stesso sistema, forse bisognava trovare altre strade per scrivere in una maniera meno codificata, una risposta al voyeurismo televisivo e alla vita immateriale dei labirinti senza fili di internet. Quel naturale contro l’artificiale di cui parlava Paolo Volponi, cioè una critica al finanzcapitalismo e alle società mediatiche, dove le forme del dominio passano attraverso i mezzi tecnologici. Io stesso leggevo soprattutto saggi, inchieste e libri di storia, avevo l’impressione che mi dicessero più cose sul mondo, sulla società contemporanea. Ma avvenne anche perché nel frattempo avevo conosciuto Mario Dondero, il Kapuściński italiano, fu il suo modo rabdomantico di fare reportage fotogiornalistici ad affascinarmi e spingermi verso la scelta di una scrittura dal vero. Da allora non ho scritto più una riga di fiction e non ho smesso più di scrivere in questo modo un po’ ibrido, rabdomantico, che sento davvero congeniale, e ho scelto come mondo di riferimento quello del lavoro, esplorato attraverso due libri di un trilogia (Le risorse umane, Feltrinelli, e Il costo della vita, Einaudi) che si chiuderà con un reportage dalla crisi che uscirà il prossimo anno da Chiarelettere.
Il mondo del lavoro mi interessa perché ha un grande immaginario. Al di là dell’interesse politico, è qualcosa che ha avuto un’epica e tuttora può essere un ottimo argomento per uno scrittore. Tutto quello che facciamo nella nostra vita confina con uno dei mondi del lavoro, e questi con la nostra esistenza, con la disumanità della fatica e l’umanità di chi quella fatica la sopporta, ne viene cambiato persino nei lineamenti del corpo, invecchia o muore mentre sta lavorando, oppure è sopra una gru e protesta perché è stato licenziato. In una accezione di epica moderna, di epica minore, quella del quotidiano, il mondo del lavoro ha degli scenari straordinari dove di più e meglio si misurano anche i conflitti inesplosi, qualcosa che cova e magari non ha voce ed è urgente raccontare. Andare di notte in una fabbrica mentre gli scioperanti fanno i picchetti e altri operai vogliono andare a lavorare, come ho fatto alla Fiat di Jesi qualche anno fa, magari perché sono precari, apprendisti, hanno paura di perdere anche il poco che hanno, vedere e raccontare gli incontri di questi corpi e percepirne il trauma silenzioso è per uno scrittore un materiale incandescente.
Oggi il lavoro dovrebbe essere il racconto principale dell’epoca, come lo fu nel periodo della Grande Depressione, soprattutto negli Stati uniti, ma non c’è adesso un romanzo, almeno in Italia, che affronti tutto questo, non c’è un Memoriale di Paolo Volponi, un Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri. I miei libri, ma anche tutto quello che ho continuato a scrivere dopo, soprattutto per il manifesto, hanno l’ambizione di ricominciare un racconto interrotto, un racconto letterario della realtà delle vite lavorative. A cominciare dai titoli, come Le risorse umane, che ho usato in una accezione umanistica e positiva, oppure Il costo della vita, che è, invece, il costo del capitale in termine di vite umane.
Il movimento operaio ha lottato tutto un secolo per alcuni diritti fondamentali, oggi erosi dal neoliberismo su scala planetaria. Solo la polizia di Scelba lasciò sulle piazze italiane oltre cento morti e migliaia di feriti nel corso di scioperi e manifestazioni di protesta nel dopoguerra. Risorse umane invece è una dicitura ipocrita di un sistema di organizzazione che non mira tanto alla valorizzazione delle persone quanto allo sfruttamento di esse, all’ottimizzazione in termini di produttività, quindi anche il lavoratore diventa una merce nel mercato occupazionale, un uomo usa e getta, l’uomo flessibile di Richard Sennett per intenderci. La sconfitta comincia nel linguaggio, è quello che va combattuto, svelato e reinventato. Volevo ricordare che dietro quella dicitura aziendalistica c’è una persona, ci sono le sue emozioni, le sue umiliazioni, i suoi sogni, che in un luogo del genere si sviluppano legami sociali importanti non solo in termini economici, ma anche umani, cosa che per esempio la precarietà ha ridotto fortemente, sostituendo l’individuo alla comunità, l’egoismo alla solidarietà, l’arrivismo e la competizione alla lotta di classe che, come scrive lucidamente il sociologo Luciano Gallino, oggi la fanno i padroni, cioè una superclass globale che sottrae ricchezza a singoli e nazioni.
Foto di Mario Dondero