Rosita Mulè sta per perdere tutto. Rosita Mulè può cambiare tutto. Mai sottovalutare la resistenza di una ragazza. Anche quando incontra il cattivo perfetto.
L’animale è debole, per natura succube, incapace di autonomia, miope nel valutare la propria personalità, istintivamente fallace. Dall’animale non ci si può attendere affidabilità, se non per una cosa sola: la sua propria, immancabile, caduta.
Questa è la femmina, per l’avvocato Ludovico Lepore, che dall’alto del suo augusto studio nel centro di Padova osserva la sfilata della vita umana nell’attesa che l’ennesimo fallimento vada a incasellarsi nella sua personale teoria degli affetti.
Così il potenziale cattivo perfetto entra nella scena dello splendido esordio letterario di Emanuela Canepa : lucido, cinico, imperscrutabile. E, naturalmente, intelligente. Un elegante fuoriclasse: l’uomo che non guarda, ma inchioda, trapassa, disegna. Intuitivo quasi oltre la decenza. Implacabile.
Cosa lo attira di Rosita Mulè? Forse la gentilezza, il candore, la malinconia di una creatura piena di ferite: che ha lasciato il paesello del Sud a prezzo di immani castrazioni, per non dover soccomberne ad altre ancora peggiori; che sopravvive nella sua dimensione universitaria di stenti, lavori massacranti ed esami che non procedono; che ha perso tutto lo smalto dell’entusiasmo dell’inizio. Ma che, pure, non demorde.
Il fatto è che a Rosita Mulè, protagonista de L’animale Femmina (Premio Calvino nel 2017, pubblicato da Einaudi), non si può non voler bene. I suoi biscotti inzuppati nel caffelatte, la sua frustrazione quando le giornate passano senza riuscire ad aprire un libro di Medicina, il suo essere in esilio da tutti e prima ancora da se stessa ne fanno un personaggio piegato ma non vinto.
“Ho imparato ad essere molto prudente, la disillusione ti uccide”
dice, mostrando di sé quello che più le riesce meglio: ritrarsi, dissimulare, sfumare nel fondo.
Eppure non è per affetto che l’avvocato di successo decide di offrirle la chance di un lavoro da segretaria. C’è, al contrario, qualcosa di molto più perverso: una volontà, una prova di forza, una seduzione, una sfida.
Un lavoro più qualificato in cambio di un nuovo corpo per il suo esperimento sociale.
La cosmogonia femminile di Rosita – che già parte da una madre manipolatoria, intossicante ed anaffettiva – si dipana nel romanzo attraverso una galleria tremenda: ci sono le clienti dello studio, abbandonate e rabbiose, c’è l’inarrivabile Renata Callegari (alta, bella, dominatrice per offesa e disassamento interiore), c’è la governante di casa Lepore, bloccata nel suo rancore e nella sua delusione. L’unica eccezione è una quasi sconosciuta: Dina, l’ex collega del supermercato, antitesi della figura materna che il destino le ha accollato. Dina è accogliente, sempre, e generosa: un raro e insperato appiglio, a cui aggrapparsi con slancio e parsimonia.
E poi ci sono gli uomini, latitanti e dappoco, che hanno il dono di comparire nella vita di Rosita per portarle sempre via qualcosa: Rocco, l’orrido semiparente che allunga le mani da padroncino impunito; Maurizio, l’uomo sposato da cui non aspettarsi niente – a parte l’umiliazione; i clienti di Lepore con gli sguardi pornografici e le riviste truci. Del padre, solo una memoria buona e lontana – oppure buona perché lontana.
In tutto questo, e nonostante tutto questo, Rosita non perde mai l’umanità: ha una parola per l’anziana dalle ore vuote che cerca di passarsi i suoi pomeriggi al supermercato, è capace di un gesto gratuito di restituzione quando assiste a uno scippo, ha persino pena per la moglie del suo non-amante sporadico. Per quanto ammaccata, per quanto dimessa, la sua esistenza solitaria, ostinatamente, non abbandona mai il principio della pietà.
“Lei pensa di essere diversa. E questa è la variabile che trovo più stimolante di tutte”
la provoca l’avvocato, che alza la posta.
I vestiti, il trucco, i tacchi: di lì deve passare la metamorfosi, dalla femminilità così tanto maltrattata e negata. Non è solo che Ludovico Lepore le offre una possibilità di cambiamento: è che la vuole proprio cambiare, vuole studiare la sua evoluzione, vederla in atto, metterla in crisi. Perché con la femminilità c’è da fare i conti:
“Sono sempre le donne che pretendono di più dalla vita. Hanno il culto della felicità, della pienezza dell’esistenza. (…) La felicità di una donna non è mai quello che c’è. È sempre quello che potrebbe essere. Un tempo al futuro, un ideale cui bisogna tendere”.
Quindi la prova, l’esperienza della crudeltà, altro non è che un esercizio di potere: il più magnetico possibile – ovvero, la plasmazione dell’altro. Dunque, viene da chiedersi, cosa potrà mai uscire dal più tremendo di tutti i demiurghi? Certo qualcosa di potente, e di sconvolgente: Rosita e Lepore hanno molto più in comune di quanto non si possa sospettare.
Hanno entrambi nascosto bene una parte di sé, hanno fatto della solitudine la loro arma di sopravvivenza, hanno resistito come il più strenuo dei combattenti, hanno infine un conto aperto – l’uno con il passato, l’altra con il proprio futuro. Per questo appaiono, a un certo punto, quasi come le due facce di una stessa medaglia: l’una in potenza, l’altro in atto.
E, poiché tutto si tiene, il finale – preannunciato sin dal bellissimo stralcio scelto dal Maurice di Forster per l’apertura – riannoda il cerchio, grazie a un fulmineo scatto di coscienza.
Emanuela Canepa ha una scrittura netta, precisa e misurata: niente viene lasciato debordare, eppure tutto, costantemente, resta sull’orlo della tracimazione interiore. Il risultato è una tensione continua, subito alta e perfettamente centrata, che ricorda le traiettorie di certe frecce di memoria antica e classica – e di memoria, dalla silhouette etrusca dell’Ombra della Sera, vera attrice non protagonista di questa storia, fino al Simposio di Platone, è disseminato il sentire profondo di tutto il libro. Tanto che dietro Rosita Mulè, integra, coraggiosa, virginale e in fuga, appare a tratti, quasi, il contorno di una Artemide postmoderna.