Ha cominciato a raccontare la sua bella città ferita, Odessa, all’inizio della guerra. Ora la fotografa ucraina Anna Golubovskaja torna a Milano e porta al Mia Fair il suo ultimo lavoro su un piccolo circo che resiste all’onda d’urto della storia
Con Anna Golubovskaja, fotografa ucraina che sta documentando la vita a Odessa durante la guerra, l’anno scorso abbiamo trascorso insieme un giorno intero a Milano. Era fine inverno, ma la giornata era incredibilmente mite e soleggiata. Insieme a Eugenio Alberti Schatz, suo amico d’infanzia, siamo andati a zonzo per la periferia, mangiato in un anonimo ristorante giapponese All you can eat parlando di arte e femminismo e concluso il pomeriggio a casa di un’altra fotografa che vive nel sottotetto di una delle torri di quella specie di castello che si intravede dietro il Politecnico di piazza Leonardo. Un largo spazio rotondo, con finestre enormi inondate dal sole. Insomma, una giornata inaspettata, dolce e piena di luce; e ancora luce, e ancora luce. In quell’occasione, ad Anna ho anche scattato una foto, la sua pelle era ancora più chiara ai raggi del sole. Anna Golublovskaja è nata e vissuta a Odessa, dove ha studiato architettura e dove nel 1993 ha fondato la Galleria Liberty, una delle prime gallerie d’arte contemporanea private in Ucraina. Dopo che ha iniziato a fotografare, ha tenuto corsi di Storia dell’arte e della fotografia e ha pubblicato diversi saggi sulla fotografia in Europa, nella città di Odessa del XIX secolo e nei Paesi post-sovietici. Dal 2017 al 2022 ha pubblicato il blog 365 Photographers.
Per lei la luce è vitale: lo è per le sue fotografie, che sfruttano sempre quella naturale e lo è per il suo spirito gentile, lo spirito odessita, pacifico e cosmopolita. Parla a bassa voce Anna, non so se è sempre stata così, o perché l’invasione russa, i lutti (suo padre, lo scrittore Evgenij Golubovskij, è scomparso l’estate scorsa) le difficoltà e le privazioni le hanno fatto abbassare il tono, hanno smorzato l’impeto e le speranze.
Subito dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, Golubovskaja ha iniziato a documentare con le immagini la sua Odessa sotto la minaccia dei missili russi, (queste foto sono state al centro del fotoracconto pubblicato dalla rivista doppiozero – coautore Alberti Schatz – e sono state esposte per la prima volta a Milano al Palazzo delle Stelline nel luglio del 2022 sotto il titolo “Qui Odessa-Cronache da una città che trattiene il respiro”).
Nel 2022 Odessa tratteneva ancora il respiro, sembrava impossibile che la Russia, che ha sempre considerato la città una capitale di cultura, quasi un luogo sacro, potesse davvero ferirla. Le foto di allora mostravano questa rarefazione del tempo, i passanti ancora sorridevano e passeggiavano sulla spiaggia.
Oggi le cose sono cambiate. Il credito di Odessa con la guerra sta scadendo, i volti non sorridono più. Lo dimostra il nuovo lavoro di Anna Golublovskaja, in questi giorni al MIA Fair, nello stand della Galleria di Paola Colombari. Sono dieci opere dal titolo “Come cambiano il nostro umore e la nostra vita durante la guerra?”. Quasi tutte le foto raccontano la vita di un piccolo circo che fra mille difficoltà cerca di sopravvivere, certo; ma soprattutto cerca di sostenere la sopravvivenza del suo pubblico, di quegli ucraini che dopo due anni di guerra ne vedono sempre meno la fine.
Anna, è appena passato un altro inverno a Odessa, com’è andata?
L’inverno, fortunatamente, è stato caldo. La neve è rara a Odessa, la gente la percepisce come una catastrofe naturale, un po’ come succedeva nell’“Amarcord” di Fellini…Giorni come questi vengono ricordati ancora molti anni dopo. Sei anni fa nevicò e i trasporti pubblici si fermarono. Nei bar a tutti coloro che camminavano venivano offerte bevande calde e gli abitanti di Odessa portavano thermos di tè e invitavano coloro che stavano congelando a casa loro per la notte. Prima di allora, ricordavamo la fine degli anni ’70, quando a causa della formazione di ghiaccio in città per tre giorni non ci sono stati acqua ed elettricità. Consideravamo quegli eventi una prova terribile. Ora, con la guerra, sorrido. Amo moltissimo la neve, e andavo sempre a fotografare la città vuota. Oggi, anche se non nevica, la città è un deserto. Ci sono molte meno persone a Odessa.
La primavera che arriva vi porta nuove speranze o sono sempre di meno?
Le speranze vanno e vengono. In primavera il cuore esulta davanti agli alberi in fiore, perché finalmente le giacche invernali vengono messe via e si può passeggiare in riva al mare senza paura di bagnarsi i piedi. Ma la guerra è sempre più vicina a noi. Non c’è giorno o notte senza bombardamenti, non puoi abituarti. Abbiamo imparato a vivere pensando al pericolo costante. Le persone stanno morendo. Le case stanno crollando. La vita di qualcuno sta andando in pezzi e tutti capiscono che potrebbero essere i prossimi. Siamo diventati fatalisti, ma ad ogni bombardamento aumenta il numero di persone che cercano di nascondersi nei rifugi.
Il tempo passa più in fretta o lentamente a Odessa, dall’inizio della guerra?
Difficile da dire. È diverso per tutti. Sento spesso da molti dei miei amici che per due anni non sono riusciti a guardare un film, a leggere o ad ascoltare musica; non riescono nemmeno a sorridere. Lo shock che li ha bloccati dall’inizio della guerra si è trasformato in depressione. Ed è come il Giorno della Marmotta, ogni giorno che passa non cambia nulla. Non posso dire lo stesso per me, il mio tempo vola molto velocemente.
Come trascorri le tue giornate in una città, dove spesso non c’è elettricità, acqua e cibo?
Sto cercando di vivere la mia vita. L’altro giorno pensavo: voglio tornare al 21 febbraio 2022? No, la mia vita è completamente diversa adesso e apprezzo questi due anni passati. Ho lavorato un sacco. Probabilmente ho scattato più foto rispetto agli anni precedenti.
Il tuo atteggiamento nei confronti della fotografia è cambiato con la guerra?
Oh si! Ho sempre amato Eugene Smith, Robert Capa, fotografi di guerra con una posizione umanistica. Non sono mai stata molto interessata all’arte puramente formale, come ad esempio quella dei fotografi del Bauhaus. Questa sensazione ora si è intensificata.
Fra i protagonisti delle tue ultime foto ci sono gli acrobati di un circo. Come si fa a strappare ancora un sorriso agli odessiti?
I residenti di Odessa, qualunque cosa accada, non perdono il senso dell’umorismo. Non posso giudicare le altre città. Nel complesso, viviamo in una situazione terribile. Ma le battute fra gli abitanti di Odessa, sebbene tristi, rimangono il modo principale di comunicare tra loro. Ad esempio: dai canali Telegram arriva l’allarme e le zone dove volano esattamente i missili e i droni. Questi canali sono gestiti dai soldati della difesa aerea di Odessa. Sono loro che guardano i radar. Scherzano costantemente e questo supporta davvero tutti. Anche se capisco che non hanno un altro modo per esprimere i loro pensieri. Siamo tutti così.
C’è una storia in particolare fra quelle che hai mostrato nelle tue foto, che ci vuoi raccontare?
Desideravo da tempo fotografare il tendone del circo. Ci sono serie di foto famose, come quelle di Bruce Davidson e di Jill Friedman. Mi hanno sempre ispirato, ma poi ero sempre legata alla casa, alle cose della famiglia. Poi, prima della guerra, ho incontrato per caso sulla spiaggia una ragazza che provava un numero con le palline da giocoliere. Ho condiviso i miei sogni con lei. Lei sognava un breve tour dei paesi asiatici con la compagnia circense di Odessa. Poi è arrivata la guerra.
Ho visto su Instagram che i suoi sogni erano crollati: non lasciavano più partire gli uomini per le tournée. Anche il suo tour è stato cancellato e poi è diventata una rifugiata. Poi ho visto dalle sue fotografie che era tornata alla sua professione. Ho visto foto di diversi paesi. In seguito, nonostante la guerra, lei è tornata in Ucraina e io l’ho fotografata. Sono le foto che presento al MIA. In una foto, questa ragazza dai capelli fluenti è in sella a un’enorme palla bianca in riva al mare, uno dei simboli di Odessa, e sembra volare verso l’alto.
Poi mio padre è morto. È stato molto duro per la mia anima e quindi le ho ricordato la nostra conversazione, quando le chiedevo di viaggiare con il circo. Ho viaggiato con loro nei villaggi e fino alle città più distanti della Transnistria, insieme al mio cane. Dormivamo nella cabina di un camion, dietro a cui erano attaccati i carri. Ho visto tante persone meravigliose!… Poi, quest’inverno, lei si è fermata a Odessa per due settimane e ha vissuto da me. Casa mia è diventata la sua sala prove: cerchi, palline… adoro quell’atmosfera.
Ti senti anche tu in equilibrio su una fune?
Non mi sento sospesa nel vuoto. Ho i miei amici accanto a me, ho i miei libri, i quadri alle pareti, la musica, il mio cane, che per me è più di un cane, abbiamo vissuto insieme giorni così difficili insieme. Lei è la mia migliore amica, la mia persona cara, che vuoto può esserci quando ho lei?
Anna, un tempo dicevi “In Ucraina vinciamo ogni giorno”: a due anni dall’inizio della guerra, ci credi ancora? Come andrà a finire?
Non so come andrà a finire. Non posso guardare così lontano. Ma so per certo che finché una persona vive, non si fanno sconti sulle circostanze. La guerra non ci dà il diritto di peggiorare. In questo senso stiamo vincendo. Finché dividiamo gli ultimi soldi tra noi e con chi ha più difficoltà, finché ne doniamo una parte all’esercito, finché diamo da mangiare agli animali di strada e troviamo la forza di tenere la schiena dritta, non possiamo essere sconfitti. Uccisi: si. Vinti: no.
Eugenio Alberti Schatz, a proposito di Anna Golubovskaja, venerdì scorso ha scritto su Facebook:
“Le cose per l’Ucraina non sembrano mettersi bene. Tante persone hanno deciso di lasciare il paese. E in un paese eroico, la fabbrica degli eroi sembra rallentare le consegne, mentre l’incapacità nostra di portarsi fuori da una pilatesca quanto desolante zona di comfort ci fa volgere lo sguardo altrove. È il destino delle guerre: stufano, sia chi le vive da dentro che chi le ascolta da fuori.… Sarebbe facile dire che il circo rappresenta la giostra della storia – quell’ineludibile commistione di demenza e distrazione, di senso e nonsenso, di risata e tristezza che diventa infine risata triste. A me piace pensare che questo piccolo circo che si sposta nelle retrovie sia invece un simbolo nemmeno troppo sgangherato di quanta forza sussista dentro le cavità umane per far fronte alle cose brutte e ineludibili. Acrobazie della vita e strategie del comico per rovesciare le oscure sentenze della storia. E poi la vita è tutta lì, davanti all’obiettivo, e già raccontarla è una barricata. Andate al Mia Fair, quest’anno è anche insieme al Miart, e poi diteci.”
Eugenio Alberti Schatz, attraverso una scrittura quasi poetica, sembra restituirci un po’ di speranza, un po’ di quella luce che Anna trasmette e nella quale crede ancora fermamente. E dunque mi unisco anche io a Eugenio esortandovi ad andare al MIA Fair per scoprire le acrobazie in tempo di guerra di Anna Golubovskaya.
In apertura e nel testo foto di Anna Golubovskaya.